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Amburgo Staatsoper. Il polimediale flauto del mondo
Giovedì 7 ottobre 2016 alla Staatsoper di Amburgo abbiamo assistito alla rappresentazione di una delle opere più celebri di tutta la storia del teatro lirico: Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Wolfgang Amadeus Mozart, nell'allestimento di Jette Steckel e con la direzione musicale di Jean-Christophe Spinosi. Possiamo dire che quest'opera si presenta come una sorta di "teatro del mondo" nel senso che racchiude dentro di sé un intero universo, come i grandi romanzi della narrativa moderna, spesso definiti "opere-mondo", in quanto capaci di rappresentare nel microcosmo di vicende umane il macrocosmo dell'intera realtà.
In quest'opera (un cosiddetto Singspiel, ossia un tipo di opera in cui si alternano parti recitate e parti cantate, simile alla ballad opera inglese a all'opéra-comique francese) ricorrono temi come la ricerca della propria individualità, il rapporto tra individuo e società, le prove che attendono i singoli, l'invecchiamento inevitabile, le decisioni che spesso vengono prese con leggerezza, la natura del potere e la sua legittimità, in una perenne dialettica tra l'affermazione illuministica della propria autonomia e la necessità di adattarsi e divenire subordinati. Il tutto in un contesto in cui si addensano temi mistici e "massonici", che rivelano come dietro un'apparente vicenda fiabesca si celi un intricato complesso di simboli e di metafore, in cui confluiscono vari elementi culturali, filosofici e letterari: la filosofia illuminista e il giusnaturalismo politico si rispecchiano nell'aspirazione dell'uomo alla saggezza, alla razionalità e al rapporto armonico con la natura (tant'è vero che molti hanno visto l'opera mozartiana come il pendant musicale al dramma Nathan il saggio del filosofo e letterato illuminista Gotthold Ephraim Lessing). Ma la razionalità non viene affatto vista in contrapposizione con elementi mistici ed esoterici, tant'è vero che, come del resto lo stesso titolo suggerisce, compaiono il flauto e un Glockenspiel dalle proprietà magiche, appaiono genietti, gnomi e animali favolosi e una natura intrisa di miracoli.
Del resto, il contesto in cui si svolge la vicenda è quello di un antico Egitto (con tanto di invocazioni alle divinità Iside e Osiride) trasfigurato attraverso simboli massonici (per accedere ai misteri sono necessari complicati riti di iniziazione, si riscontra la presenza di sette, come quella dei seguaci di Sarastro, si trova una complessa simbologia numerologica, ecc.). Tesi doviziosamente argomentata dal grande musicologo francese Jacques Chailley nel libro La Flûte enchantée, opéra maçonnique. Simboli, peraltro, che richiamano altri capolavori letterari, ben presenti all'autore del libretto, Emanuel Schikaneder, come i drammi shakespeariani The Tempest e A Midsummer Night's Dream.
Peraltro, la vicenda può essere anche assimilata ai Bildungsromane dell'epoca, ossia ai romanzi di formazione che narrano l'evoluzione spirituale di un individuo che, invecchiando, passa dalla condizione di ignoranza a quella di sapienza, attraverso la scoperta dell'amore e il superamento di svariate prove iniziatiche. Temi che hanno, a loro volta, fatto accostare Il flauto magico alla Divina Commedia di Dante e alla Fenomenologia dello spirito di Hegel.
Richiamiamo qui brevemente la trama, giocata tutta sull'alternanza del giorno (la sapienza solare) e della notte (le tenebre della superstizione) e quindi sulla tematica del bene contrapposto al male, che però si capovolgono talora in modo sorprendente.
Nel primo atto troviamo il personaggio del principe Tamino, che viene salvato dalle dame della Regina della Notte mentre sta fuggendo a un serpente-drago, e il suo amico Papageno, che vive alla giornata come addestratore di uccelli predatori, vestito di piume e suonatore di flauto. Le tre Dame lo puniscono chiudendogli la bocca con un lucchetto perché si era vantato di aver ucciso il drago e mostrano poi a Tamino un ritratto di Pamina, figlia della Regina e rapita da un malvagio stregone, Sarastro, sicché egli se ne innamora e tenta di andare in suo soccorso insieme a Papageno, assistito nell'impresa da un flauto magico e da Glockenspiel dato a Papageno.
Papageno riesce rocambolescamente a liberare Pamina da Monostato, il tipico villain del melodramma dell'epoca, non a caso di pelle scura, mentre Tamino arriva di fronte a tre templi, che ricordano le tre vie del filosofo greco Parmenide: uno intitolato alla Natura, l'altro alla Ragione e il terzo alla Sapienza. Ed è da quest'ultimo che, nei panni di un sacerdote egizio, giunge una rivelazione inattesa: Sarastro non è un mago malvagio, ma un maestro di saggezza che ha rapito Pamina a fin di bene. Dopo un po' sarà Sarastro stesso su un carro trionfale trainato da sei leoni a chiarire le cose, spiegando che la vera insidia sta nella madre di Pamina, la superba Regina della Notte, detta anche Astrifiammante.
Nel secondo atto, Tamino deve superare tre prove (si noti la ricorrenza simbolica del numero tre) per entrare nel regno di Sarastro, una sorta di rito di iniziazione per i nuovi adepti della sua confraternita. La prima prova consiste nell'osservanza assoluta del silenzio, qualunque cosa avvenga. Mentre Tamino riesce a mantenere fede all'impegno, Papageno infrange la legge e riceve, come consolazione, una coppa di vino rosso e una ragazza di nome Papagena, che però presto scompare, salvo ricomparire alla fine e ricongiungersi con Papageno.
La seconda e la terza prova consistono nelll'attraversamento dei sotterranei del Tempio e nella purificazione con i quattro elementi di matrice empedoclea: acqua, aria, terra e fuoco. La prova viene superata grazie anche al flauto magico, che riesce a proteggerli con una piramide di energia dalle forze astrali che li minacciano. I malvagi, ossia la Regina della Notte, le tre Dame e Monostato, soccombono a causa di un evento naturale, un terremoto che li fa precipitare negli abissi, mentre Pamina e Tamino vengono accolti nel regno di Sarastro. I versi finali dell'opera echeggiano quelli del Faust di Goethe (che non a caso avrebbe voluto scrivere il libretto per la prosecuzione dell'opera: Es siegte die Stärke/Und krönet zum Lohn/Die Schönheit und Weisheit/Mit ewiger Kron'! – La fortezza ha vinto/e come premio incorona/la Bellezza e la Saggezza/con eterna gloria!).
La scelta del regista è stata quella di attualizzare in modo forse un po' estremo l'opera mozartiana: già durante l'ouverture (che riprende tra l'altro una melodia di Muzio Clementi), eseguita dall'orchestra (la Philharmonisches Staatsorchester Hamburg) con levità e delicata maestria, grazie alla sapiente direzione di Jean-Christophe Spinosi, assistiamo a un finto soccorso a un attore, nascosto tra il pubblico, che finge di sentirsi male. Evidente metafora delle pene umane associate all'oscura radice del male del mondo. Nella scena il gioco delle luci, che rimandano all'illuminismo (Aufklärung) è estremamente articolato, e va dai quanti di luce ai pixel, a suggerire che oggi il mondo ci appare solo attraverso queste mediazioni. Non mancano riferimenti al fatto che la forza dell'amore supera i confini tradizionali, con varie citazioni dalla cultura queer, che strappano vari applausi in sala.
Dei cantanti, ci ha particolarmente impressionato la performance di Christina Gansch, soprano nelle vesti di Pamina, che è riuscita a rendere mirabilmente le diverse tempeste sentimentali che attraversano il personaggio. La prova dell'altro soprano, Christina Poulitsi, nei panni della Regina della Notte, è stata anch'essa significativa, anche se nella celeberrima aria del secondo atto (Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, La vendetta dell'inferno ribolle nel mio cuore) ci saremmo aspettati un tono più cupo e meno disteso. Andrea Mastroni, nei panni di Sarastro, ci è sembrato piuttosto un baritono che si cimentava anche come basso, rendendo comunque adeguatamente il tono del mago. Infine, Doviet Nurgeldiyev, tenore nei panni di Tamino, e Jonathan McGovern, baritono che impersonava un Papageno quasi da personaggio di West Side Story, hanno interpretato i loro ruoli con leggerezza e maestria. Il coro della Hamburgisches Staatsoper Orchester ha sempre accompagnato i cantanti con perfetta armonia e sincronismo da metronomo.
A questo proposito va però aggiunta un'osservazione: benché la direzione di Jean-Christophe Spinosi sia stata impeccabile ed abbia efficacemente coordinato il coro con l'orchestra, si è notato nella seconda (che a differenza del coro era quella della Philharmonie e non dell'Opera) una certa freddezza nell'interpretare alcuni passaggi. Niente da dire per l'ouverture, più congeniale a un'orchestra che ha un repertorio prevalentemente sinfonico, ma le varie arie e le musiche di accompagnamento ai recitativi talora suonavano algide e fredde, a tratti quasi meccaniche e automatiche: forse sarebbe stato necessario un minimo di passione in più. Ciò non toglie nulla alle notevoli qualità tecniche dei vari ensemble coinvolti e all'alta professionalità della direzione, che, in concerto con la regia, ha saputo trasformare Il flauto magico in una vera "opera polimediale" moderna.