Supporta Gothic Network
Berlin Deutsche Oper. Don Giovanni o l'insieme interpretativo di Roland Schwab
Ogni regista, in merito al titolo mozartiano in questione, ha avuto la sua opinione, ma fino ad oggi non si è mai giunti ad un’interpretazione definitiva sia a livello scenico, sia attoriale. Il 25 Giugno del 2011, però, alla Deutsche Oper di Berlino ho avuto il piacere di poter confutare la mia affermazione precedente con la messa in scena di Roland Schwab (direzione musicale di Roberto Abbado).
Il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte, è uno dei capolavori massimi del Settecento occidentale. Al giorno d’oggi, infatti, è considerata da tutti i teatri un’opera ‘di repertorio’: un appuntamento fisso di ogni ‘cartellone lirico’ che si rispetti. È la storia dell’eterna sfida tra l’uomo e il soprannaturale: le avventure amorose di un libertino che, essendo entrato di nascosto nel palazzo di Donna Anna (la sua ultima ‘conquista’), scoperto, uccide il padre di lei. Quest’ultimo, con le sembianze di una statua, tornerà alla fine dell’opera per sfidarlo e convincerlo a pentirsi del suo peccaminoso stile di vita.
Quel che il regista ha voluto presentare è il surplus di tutti gli spunti interpretativi possibili per l’opera Don Giovanni: da quelli già utilizzati (ad esempio la presenza di una bambina sul palco, simbolo dell’innocenza che il libertino non possiede più, fu un espediente usato da Peter Sellars nella sua messa in scena del titolo mozartiano nel 1991); ai ‘riciclabili’ per ‘coniare’ delle nuove interpretazioni. La conseguenza di ciò è una rappresentazione incoerente dal punto di vista drammaturgico (alcune relazioni tra i personaggi risultano approssimate e confuse), ma che, però, ha ben presente quale sia il centro dell’intera opera.
Il libertino, infatti, torna ad essere il reale protagonista della vicenda (cosa non tanto ovvia poiché alcuni registi, ad esempio Martin Kušej, hanno caratterizzato talmente tanto gli altri personaggi mettendo in ombra il libertino); in aggiunta, nella messa in scena di Schwab - non è un caso che l'opera si concluda direttamente con la morte del protagonista senza il finale 'moralistico' del secondo atto -, viene rappresentato come un sadico e perverso regista (amante del golf tanto da segnare i passaggi più importanti dell’opera - come le sue vittime - con i numeri delle buche) che dirige ogni azione scenica arrivando, addirittura, a trasfigurare la realtà secondo il proprio gusto. Il contesto, di stampo sado-maso, è immerso in una perenne oscurità, permeata dalla presenza di oggetti scenici ‘trash’ (cadaveri mischiati a sacchi dell’immondizia e rottami); ciò altro non è che la semplice ‘figurazione’ dell’anima del libertino sulla scena: un misto di morte, sesso estremo e depravazione (risultante massima di ciò è la scena finale del primo atto: momento in cui l’essenza del protagonista prende ulteriormente forma).
Pongo ora attenzione alle incoerenze drammaturgiche da me prima citate. Se ne possono distinguere di due tipi: ‘tagli effettivi’ e ‘idee sfumate’. I primi sussistono in base a dei ‘credo’ drammaturgici dell’opera mozartiana che, se tagliati, possono rivelare un’analisi poco attenta del regista. In tal senso voglio mettere in evidenza il ‘mancato’ rapporto tra Don Giovanni e Leporello, qui inteso come un legame più ‘mefistofelico’ che di servilità: il servo non è l’alter ego del suo padrone, ma il ‘servitore prediletto’ del signore oscuro. Ciò lo si deduce da determinati comportamenti scenici di Leporello: nella scena sedicesima del secondo atto, ad esempio, il servo punta come preda sessuale Donna Elvira, per ordine del suo padrone che, infastidito, vuole liberarsi subitamente della ‘povera infelice’ al fine di mangiare in pace.
In merito alla definizione per Leporello di ‘servo prediletto’, aggiungerei la frase ‘tra tanti’ poiché Don Giovanni, per gran parte della messa in scena di Schwab, non si trova mai solamente in compagnia del suo servo. Da ciò la definizione di ‘idee sfumate’, nonché, nel caso seguente, di 'spunto riciclabile': il libertino, per tutto il primo atto, è costantemente accompagnato da un corteo di uomini che, nella seconda parte dell’opera, semplicemente scompaiono (alcuni di loro torneranno nella scena del banchetto, prima dell’arrivo del Commendatore, al fine di ricreare sul palco il quadro di Leonardo Da Vinci dell’ultima cena: una vera e propria provocazione religiosa all’interno della storia del peccatore supremo).
Gli uomini altro non sono che delle ‘marionette’ di Don Giovanni o, meglio, dei corpi privi di anima che si muovono solo a comando del loro ‘signore’, del quale rappresentano l’estensione; essi fanno tutto ciò che il protagonista non farebbe mai come, ad esempio, uccidere il Commendatore. In merito a ciò mi è impossibile comprendere perché tale ‘espediente’ teatrale sia stato, nel corso della rappresentazione, abbandonato: molto probabilmente, stando alla mia affermazione precedente che la messa in scena di Schwab sia un surplus di spunti interpretativi, l'idea del corteo di uomini a seguito di Don Giovanni può configurarsi come uno spunto riciclabile da altri registi degno d'approfondimento.
Degni di nota, invece, sono anche gli altri aspetti del surplus d’idee interpretative intesi come inediti per la drammaturgia ‘dongiovannesca’: primo fra tutti il rapporto, nel secondo atto, diretto tra il libertino e il pubblico; queste due ‘entità’, infatti, non sono più distanti grazie alla presenza di una pedana circolare, che permette di circumnavigare lo spazio occupato dall’orchestra al fine di restare ‘faccia a faccia’ con gli spettatori; nella scena del cimitero, infatti, la statua del Commendatore può essere un qualsiasi pagante della prima fila. Tale espediente significa dare a chi osserva l’occasione di essere il vero giudice delle azioni di Don Giovanni, ovvero di svolgere il compito del Commendatore (il quale scenicamente corrisponderà, almeno nel secondo atto, soltanto ad una voce proveniente da dietro le quinte). La stessa morte del libertino, infatti, si verifica di fronte al pubblico al quale viene protesa la mano in riferimento ai versi della statua (‘Dammi la mano in pegno’) che siglano l’inizio della discesa di Don Giovanni agli inferi.
La messa in scena di Roland Schwab non sarebbe stata completa senza la presenza di bravi cantanti/attori: la lode non va solo al protagonista Ildebrando D’Arcangelo, il quale (pur avendo sempre militato nel ruolo di Leporello) incarna perfettamente il magnetismo e l’erotismo di Don Giovanni, ma anche ai più giovani Nicole Cabell (Donna Elvira) e Yosep Kang (Don Ottavio); questi ultimi, attraverso la loro voce, mettono in mostra la raffinatezza e la dolcezza vocale dei loro personaggi mozartiani come raramente, ormai, capita di sentire.
Il Don Giovanni, attraverso la regia di Roland Schwab, è riuscito a conservare tutto lo scibile interpretativo immaginabile: un ponte di collegamento per la messa in scena definitiva sulla storia del libertino? Decisamente sì, ma ci vorranno ancora molte rappresentazioni prima di confermare tale ipotesi.