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Federico Condello e la scuola giusta. Un'elegia per il liceo classico
Il libro di Federico Condello – professore ordinario di filologia greco-latina presso la più antica università del mondo, quella Bologna dove hanno insegnato, inter alios, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Umberto Eco – La scuola giusta. In difesa del liceo classico (Mondadori, 2018) si configura come una sorta di fredda e insieme appassionata elegia dedicata a un'istituzione scolastica che come nessun'altra ha plasmato l'immaginario dell'Italia unita. Istituzione così profondamente radicata che di essa si ama spesso decantare l'immutabilità: caratteristica che Condello mostra essere puramente presunta, atta piuttosto a ispirare la nostalgia di chi ha frequentato il liceo classico e l'angoscia di chi sta per frequentarlo.
Il libro di Condello è scritto in un italiano mirabilmente scorrevole, dove pure i frequenti latinismi, grecismi, anglicismi, francesismi e germanismi (e cultismi in generale) non ostacolano la lettura, che procede spedita, quasi che l'autore volesse accompagnare il lettore verso le sue tesi, argomentate con rigore deduttivo e perizia filologica (perizia filologica che non vuol dire soltanto un uso documentato delle fonti – disponibili in un file pdf sul sito dell'autore, ma non, purtroppo, in appendice al volume, immaginiamo per esigenze editoriali –, ma anche un'accortissima utilizzazione di dati statistici, parametri numerici e indicatori socio-economici). Per la messe di dati a disposizione si può ben dire che si tratta del libro più documentato mai apparso sull'argomento, quasi la sintesi finale dopo i due migliori libri precedenti dedicati al liceo classico, ossia quello di Adolfo Scotto di Luzio (Il liceo classico, Bologna, Il Mulino, 1999) e quello di Michele Napolitano (Il liceo classico. Qualche idea per il futuro, Roma, Salerno editrice, 2017).
Rispetto al primo libro, Condello si differenzia perché non intende scrivere una storia completa del liceo classico, nella convinzione che una ricostruzione storica esaustiva non potrebbe essere scritta senza tracciare un profilo storico e sociologico dell'intera scuola italiana. Egli mira piuttosto a individuare linee di tendenza e costanti metodologiche che di recente hanno animato un vivacissimo dibattito, sia in sedi accademiche, sia a livello giornalistico, sul futuro di questo particolare segmento della scuola italiana, di cui molti starebbero constatando una crisi irreversibile, mentre altri, più ottimisti, ne auspicano un radioso futuro dopo un inevitabile bagno palingenetico.
Ovviamente il libro si concentra precipuamente sulle due materie assolutamente caratterizzanti del liceo classico italiano, ossia il latino e il greco, vale a dire sul "morto latino" e sul greco "che è più morto del latino", come ebbe a esclamare una volta, negli anni Settanta dell’Ottocento (quindi ben due secoli fa!), un politico di provincia interpellato dal ministro della Pubblica istruzione. L'autore però teme che dietro dichiarazioni come quelle pronunciate dall'ex ministro Luigi Berlinguer ("il liceo classico non è solo le lingue antiche e non è prevalentemente le lingue antiche") si nasconda l'intento di smantellare sia le lingue antiche sia il liceo classico.
Ma paradossalmente, adottando un'ottica politica se non di sinistra senza dubbio di stampo "egualitario", Condello osserva che "quando si dibatte di liceo classico, la questione è d’ordine sociale e politico, inevitabilmente". Tale dimensione socio-politica è per lui fondamentale, perché il liceo classico ha svolto un ruolo che ha perfino travalicato le intenzioni di coloro che ne hanno definito l'identità: quello di aver rappresentato, in molte fasi della sua storia, un esteso e diffuso esperimento di democrazia formativa e culturale tentato nell’Italia e nell’Europa moderne. Quest'ottimismo illuminista di fondo che permea il libro di Condello lo porta da un lato a definire il liceo come "l’emblema di una scuola che vorremmo insieme pubblica e ottima", e dall'altro a mettere in discussione, con un'invidiabile acribia storiografica, alcuni luoghi comuni che si addensano su di esso, a partire dallo stesso nome e dagli stessi esordi nel sistema scolastico della nostra penisola, per finire con la confutazione della (presunta) immutabilità di questo tipo di scuola e della formazione che vi si pratica.
Il libro si articola in due parti (Prima parte: Carta d'identità: nascita, nome, numeri, e lente metamorfosi. Parte seconda: Miti, chiacchiere e repliche: il liceo classico, la scuola giusta), a loro volta suddivise in densi capitoletti (più lunghi quelli della seconda parte, che sono infatti divisi in ulteriori paragrafi). Nella prima parte l'autore entra nel vivo dell'argomento sottolineando la difficoltà di assegnare una data precisa di nascita al liceo classico, la cui ultima metamorfosi è comunque recentissima, essendo stata attuata dalla riforma Gelmini del 2010. Con un colpo micidiale, Condello definisce un "sofisma" quello di coloro che datano l'origine del liceo classico alla riforma Gentile del 1923, sia che lo facciano "da sinistra", per denigrarne la presunta origine fascista (così Andrea Ichino, che ricorda la definizione della riforma Gentile come "la più fascista delle riforme”, secondo Mussolini), sia che lo facciano "da destra", come Diego Fusaro e Marina Valensise: dei quali il primo parla del Liceo classico come "la migliore scuola del mondo, concepita dal Gentile ministro dell’Istruzione, fautore della migliore riforma della scuola di cui il nostro Paese abbia a oggi beneficiato", e la seconda, ironicamente, allude al "tanto vituperato liceo classico, frutto dell’altrettanto vituperato regime fascista, la creatura di Giovanni Gentile" che "vede crescere le iscrizioni".
In realtà, osserva giustamente Condello, il contributo di Gentile al liceo classico fu, sul piano dei contenuti, di scarso rilievo (si limitò, osserviamo noi, sostanzialmente a sostituire la filosofia studiata per temi e problemi con la filosofia studiata da un punto di vista storico-evolutivo in senso idealistico; del resto, lui stesso aveva studiato in un liceo classico, lo "Ximenes" di Trapani, che preesisteva alla sua riforma!), ma fu immenso sul piano della retorica, perché ne accentuò l'immagine elitaristica e di prestigio.
Per Condello, l'origine del liceo classico andrebbe piuttosto rintracciata negli ultimi anni del Regno di Sardegna e nei primi anni del Regno d’Italia, ossia nella legge che porta il nome del conte Gabrio Casati (13 novembre 1859), la quale sancì il carattere statale e laico dell’istruzione classica, sottraendola ad enti e istituti religiosi, che fino ad allora ne detenevano quasi il monopolio, seppur con un focus prevalente sul latino e con una scarsa attenzione per il greco.
Ma il liceo innervato dal greco si candidava a diventare, nella concezione della neonata nazione italiana e sotto gli auspici del liberalismo cavouriano, l’emblema dell’educazione libera, rinnovata, nazionale, che avrebbe dovuto fungere anche da volano della promozione sociale della nuova "classe media". In ogni caso, nella lunga durata prediletta dagli storici, le radici del liceo classico potrebbero essere cercate in tempi ancora più remoti, arrivando fino alle esperienze scolastiche primo-ottocentesche del Lombardo-Veneto austriaco, grazie all'influsso che tale modello esercitò sul Piemonte che strappò quei territori all'Austria proprio nell’anno della legge Casati (1859), con il vinto che quasi impone al vincitore il suo modello educativo di successo; per non parlare del "fanatismo classico" dei giacobini al tempo delle guerre napoleoniche: fanatismo che si configurava però quasi in modo schizofrenico, se è vero che la Repubblica Cisalpina tentò da un lato l'eliminazione del latino (visto come un retaggio clericale e reazionario) dalle scuole (suscitando le proteste di Ugo Foscolo) e dall'altro la riappropriazione politica dei modelli antichi, in chiave rivoluzionaria. Condello non manca neppure di ricordare la "grecomania" della Prussia guglielmina, alla quale il Piemonte sabaudo cercò di ispirarsi per la sua normativa scolastica, influenzato anche dalla diffusa opinione per cui nella battaglia di Sedan (1870) i francesi non vennero sconfitti solo dal valore militare dell’esercito del feldmaresciallo Helmut von Moltke, ma anche dalla formazione disciplinare del Gymnasium ideato dal grande filosofo Wilhelm von Humboldt.
Condello quasi si "diverte", poi, a mettere in evidenza l'atteggiamento per lo meno ambiguo delle autorità cattoliche nei confronti dell'istruzione classica. Infatti, da una parte i curricula scolastici a base di greco e latino sembravano un prodotto del protestantesimo (non dimentichiamo che il riformatore Filippo Melantone, detto il praeceptor Germaniae, aveva sostenuto che "chi è nemico del latino e del greco è nemico dell'umanità"); dall'altra parte i collegi gesuitici, con la loro Ratio studiorum, offrivano un modello di istruzione classica, in particolare con la distinzione fra «lingue» e «letterature» (italiana, latina, greca), che venne ripresa in toto dalla legge Casati e si è poi tramandata fino ai giorni nostri.
Notevoli sono anche le considerazioni sull'origine del sintagma stesso "liceo classico", contenute nel capitoletto Nomen omen. Condello osserva pertinentemente che nel Regio Decreto del 6 maggio 1923 (ossia la cosiddetta "riforma Gentile") l’espressione "liceo classico" non compare mai, né compariva nella Legge 860 del 21 luglio 1911, ossia la riforma del ministro Luigi Credaro, che istituì il cosiddetto "liceo moderno", una sorta di liceo linguistico ante litteram, con meno latino e senza greco, frequentato anche da Cesare Pavese. In effetti, al liceo per eccellenza, quello con latino e greco, non si addicevano altri epiteti: esso era il liceo κατ’ ἐξοχήν, per eccellenza, senza ulteriori specificazioni. Sicché la dizione "liceo classico", opposta a "liceo moderno" o a "liceo scientifico", si troverà prima nell'Inchiesta Scialoja del 1872 e poi soltanto nei lavori di alcune commissioni ministeriali istituite nel 1905 per riformare gli studi secondari, e nelle avvertenze ai programmi del 1913, scaturenti da tale riforma. Ma a livello legislativ ufficiale l'espressione "liceo classico" troverò la sua compiuta canonizzazione in un testo normativo primario soltanto con la Carta della Scuola di Giuseppe Bottai, del 1939 (tradotta poi nella legge 1º luglio 1940, n. 899). Invece Gentile nella sua riforma aveva dato nascita normativa, con tanto di nome preciso e inequivocabile, proprio al liceo scientifico. Cosa che – sottolinea Condello con una punta di ironia – è "il suo maggiore contributo alla storia del liceo classico".
Nel capitoletto dedicato alle "aride cifre", Condello conferma alcune "verità" (tra cui quella della maggiore diffusione dei licei classici nelle regioni del Centro-Sud, con i picchi massimi raggiunti nella regione Sicilia, con 19.600 iscritti, e nella Città metropolitana di Roma Capitale, che conta 17.000 iscritti), ma altre ne confuta usando con estrema perizia i dati disaggregati, fino a dimostrare che dopo la riforma Gelmini non abbiamo assistito a un dimezzamento delle iscrizioni al liceo classico: si è solo trattato di una migliore lettura dei dati degli iscritti, che prima comprendevano anche coloro che si iscrivevano a vari indirizzi di liceo sperimentale (linguistico, socio-psico-pedagogico) ubicati nello stesso plesso edilizio del liceo classico tradizionale. Viene invece confermata la marcata "femminilizzazione" di questo liceo, con il 68,79% dei frequentanti di sesso femminile. E Condello commenta che sembra quasi uno scorno riservato a Giovanni Gentile, il quale asseriva che le donne "non hanno e non avranno mai né quell'originalità animosa del pensiero, né quella ferrea vigoria spirituale, che sono le forze superiori, intellettuali e morali, dell'umanità" (La nuova scuola media, ristampa, Firenze, Le Lettere, 1988, p. 276). Il che non voleva però tanto dire che il filosofo volesse escluderle come allieve dai licei classici, come sembra credere Condello: piuttosto, si adoperò affinché per legge venissero escluse come insegnanti dal triennio finale dei licei (per l'università non si pensò a nessuna esclusione, tanto era irrilevante, se non nulla, la quota di donne che vi insegnavano).
Nel capitoletto Scuola fra scuole Condello analizza i motivi che hanno progressivamente portato il liceo classico a perdere l'aura di assolutezza ed esclusività, rinunciando per vari motivi a certe sue peculiarità. Ma in quest'operazione egli è ben lungi da toni apocalittici, disfattisti e nostalgici. Anzi, sostiene con convinzione che "idolatrare per posa un passato presunto edenico" equivale ad annichilire le potenzialità e le passioni degli studenti odierni. Tuttavia, nell'esame di maturità semplificato, ridotto a sole due materie all'orale, varato nel 1969, scorge un segno pericoloso di un cambiamento che investirà il liceo classico entro il sistema dell’istruzione secondaria. Per il nostro autore, le modalità d’esame introdotte nel 1969 rinforzarono, per quanto possa sembrare paradossale, l’identità del liceo classico in senso classicistico ed umanistico, facendone sempre di più la scuola del greco e del latino, ma riducendo altresì in modo preoccupante l’attenzione riservata alle altre materie, specialmente le cosiddette hard sciences.
Da quell'eredità è lentamente scaturito, attraverso un travaglio che è passato per le varie sperimentazioni (tra cui la migliore fu quella voluta da Beniamino Brocca) e la riforma Gelmini del 2010, l'attuale coacervo di proposte, che mira, secondo Condello, a una sorta di "settarizzazione" del liceo classico, con un esito paradossale: tanto più il liceo dovrebbe diventare un ridente salotto dove si impara ad amare il mondo antico, le lingue classiche e l'immaginario greco-latino, quanto più verrebbero impoverite quelle cosiddette hard skills grammaticali su cui si fonda lo studio delle lingue antiche e che culminano nella pratica della traduzione. E l'autore non esita ad additare in altri studiosi, come Maurizio Bettini, gli ispiratori di tale tendenza, che si potrebbe ricondurre a tre assunti di fondo: 1) una critica insistita e quasi ossessiva alla cosiddetta παιδεία grammaticalisica praticata al liceo classico, dove la grande cultura antica diverrebbe solo il pretesto per infliggere quintali di versioni e di regolette grammaticali ai malcapitati studenti. 2) La necessità di appassionare e interessare gli studenti ricorrendo soprattutto agli studi antropologici, al cinema e al teatro. 3) L’opportunità di rinnovare metodi e contenuti didattici cominciando però dalla meta finale, ossia dalla versione dell'esame di maturità. Assunti che Condello pazientemente smonta, mostrando come la grammatica non escuda un approccio critico ai testi e come annacquarla riduca i docenti a meri intrattenitori. Anche l'antropologia e l'uso di cinema e teatro per accostarsi alla cultura antica sono ormai pratica corrente, che non richiede particolari rivoluzioni. Mentre l'idea, ormai attuata, di modificare la seconda prova della maturità, offrendo delle versioni più "contestualizzate", rischia di tradursi in una prassi edulcorata, dove verrebbe meno il tratto distintivo delle attuali versioni, che insegnano il rigore dell'analisi concettuale, una virtù suscettibile di essere generalizzata e applicata nelle più varie discipline.
La seconda parte del libro è dedicata alla confutazione di vari pregiudizi che si sono addensati sul liceo classico, che sono raggruppabili in quattro rubriche, ognuna delle quali compendia una serie di valutazioni e di opinioni talmente radicate che sfidano ogni mancanza di fondatezza storica.
Il primo pregiudizio è quello per cui il liceo classico sarebbe una "scuola fascista", giusta la sua pretesa concezione e formazione di origine gentiliana: in realtà, durante il regime fascista del liceo classico si sottolineò soprattutto l'elitismo e il classismo. Come scrive lo stesso Gentile, "gli studi secondari sono di lor natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola; e dunque non possono spettare se non a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani". In realtà, la riforma di Gentile fu significativa soprattutto per gli esami finali, nei quali si cercò di contemperare il principio della valutazione-Blitz, affidata alle prove stesse d'esame, e il principio della valutazione diffusa e costante, scaturente dall’attività didattica quotidiana culminante negli scrutini, secondo linee tracciate già da Benedetto Croce, quando ricoprì la carica di ministro, e improntate al massimo rigore. Per il resto, la riforma conteneva forti elementi di autoritarismo, classismo e darwinismo sociale, ma come una sorta di effetto differenziale del nuovo sistema così impiantato, e non come proprietà dei singoli segmenti del sistema: anzi, proprio il liceo classico subì, per certi versi, un processo che da un lato lo "spopolò", mentre dall'altro lo avviò alla "decadenza", anche ma non soltanto per la politica dei "ritocchi" che il regime intraprese per renderlo meno rigoroso (ritocchi tra i quali Condello non cita, però, la decisione del quadrumviro De Vecchi, ministro dell'Educazione nazionale nel 1936, di sostituire alla lettura diretta dei testi dei filosofi lo studio accurato del sommario – o "somario", come si disse con facile ironia – di storia della filosofia).
Il secondo pregiudizio è quello per cui avremmo a che fare con "un liceo per umanisti", dove le discipline scientifiche avrebbero un ruolo marginale. E qui Condello ha facile gioco nel mostrare come il dualismo tra cultura umanistica e cultura scientifica sia il portato di condizioni storiche ben diverse dalle attuali, e su cui rischiano di rovesciarsi due miti: quello dell'interdisciplinarità, con le sue frivole invenzioni, e quello della presunta natura "altra" dei saperi umanistici rispetto a quelli scientifici. Si tratta di due modi inversi e simmetrici per mascherare la divisione del lavoro. Ma oltre a misure pratiche per accrescere, come si fa in molti licei, la quota oraria delle hard sciences, nella direzione di quel liceo classico-scientifico auspicato da Umberto Eco, Ivano Dionigi, Lucio Russo e altri (per cui la misura della scuola dev'essere l'et et, non l'aut aut), Condello osserva che il greco e il latino rappresentano e custodiscono "un patrimonio di metodi, di tradizioni didattiche, di prassi intellettuali che per ragioni storiche, e non per innate qualità, sono connesse in maniera prevalente a tali discipline" (p. 153), contribuendo "a mutare o orientare il carattere di discipline quali italiano o storia o filosofia, di cui a loro volta si nutrono" (p. 151), allargandone gli orizzonti e le possibilità didattiche.
Il terzo capo d'imputazione scorge nel liceo classico un liceo "disumano", il cui pilastro sarebbe costituito dal cosiddetto "grammaticalismo", variante linguistica del feticcio "magno" costituito dal "nozionismo" (ma, osserva sarcasticamente Condello, non non c’è innovazione didattica che sia aliena dalla deriva nozionistica, compresa quell’antropologia del mondo antico così cara ai fustigatori delle presunte "torture grammaticalistiche" E come diceva amaramente Theodor W. Adorno, una scienza come la sociologia, nata per fare critica della società e promuoverne il cambiamento, si era ridotta a raccogliere interviste nei circoli di caccia). E qui con apparente paradosso e contro la retorica del preteso smantellamento dei luoghi comuni, insiste comunque sul valore dello studio della grammatica, opinando che la prassi invalsa nei licei italiani sia comunque quella "giusta": ossia che si debbano sicuramente curare di più alcuni aspetti negletti (maggiore attenzione per il lessico, studio più contestuale della grammatica), ma che la didattica oggi praticata dai migliori docenti sia da proseguire e semmai da migliorare, non certo da cambiare radicalmente. Ad esempio, Condello riconosce che anche in passato pochi leggevano latino e greco ad aperturam libri, ma si chiede se debba essere questo il fine del liceo classico. E risponde con un netto no. Saranno però delusi quanti cercheranno un'analisi di metodi come quello Ørberg (detto anche metodo natura o induttivo-contestuale), che viene senza dubbio menzionato, ma più che altro per rilevare che non si tratta di una grande novità. Inoltre Condello, se da un lato stigmatizza anche lui "il pigro slogan del latino «lingua logica», al quale in Italia ha inferto un colpo mortale un logico (Guido Calogero), dopo le già dure bordate di Giorgio Pasquali" e l'altrettanto infondato mito del greco come «lingua geniale», popolarizzato dal libro di Andrea Marcolongo, dall'altro invita comunque a vedere nell'apprendimento del greco e del latino dei benefici di carattere metalinguistico ed epistemologico: dall'educare alla dimensione storica delle lingue anche sulla scorta dei dati empirici più immediati e quotidiani; all'insegnare a comparare come precetto metodologico in tutte le discipline, fino a riconoscere "i «modelli» in quanto tali, le ipotesi e le congetture in quanto tali, cercando sempre il dato che vi si sottrae, e il beneficio dei modelli o delle ipotesi alternative" (p. 209). Pratiche in cui rientra anche quella che si potrebbe chiamare la "didattica dell'errore", che ricorda il procedere popperiano per trials and errors e che la tradizionale versione dal greco e dal latino è in grado di sviluppare in modo ottimale.
Nell'ultimo capitolo viene smontato il pregiudizio più fastidioso, quello cioè che vede il liceo classico come scuola di classe, o meglio di discriminazione classista. Essendo questo uno dei punti più importanti della questione, Condello da un lato auspica una sempre maggiore equità sociale e culturale, ma dall'altro lato non nega che il liceo classico si configuri come una scuola classista perché frequentata tuttora dalle fasce della media e alta borghesia. Tuttavia, secondo lui l’istruzione superiore potrà decisamente cercare di riequilibrare le disparità d’origine degli studenti, benché sia tuttora in atto, per certi versi, una vera e propria "segregazione" scolastica per cui oggi le generazioni di giovani studenti pagano ancora "con puntualità eschilea" le colpe delle generazioni anteriori. In modo forse un po' troppo ottimistico, Condello assegna qui al liceo classico "tutte le caratteristiche per costituire ancora un efficace strumento di equità culturale e sociale", nella misura in cui è in grado di attrarre non solo gli studenti privilegiati, ma anche studenti "le cui chances di sopravanzare i genitori sono fra le più alte, visti i dati dei successi universitari che caratterizzano i diplomati al classico" (p. 245).
Il libro si conclude con considerazioni che hanno il sapore dell'utopia, dagli accenti quasi lirici, che tradiscono l'anima del letterato dietro quella del freddo filologo. Infatti, per Condello, "il liceo classico addita la possibilità di una scuola che sa raccogliere, perfezionare, adattare tradizioni secolari, e lo fa quotidianamente, a onta dei suoi detrattori". Per lui è certamente possibile arricchire e rinnovare il patrimonio di conoscenze che siffatta scuola propone ai suoi studenti, ma non sostituirlo con altri saperi, a meno di non procedere a una sua sommaria e improvvisata liquidazione. Il vero merito del liceo classico consisterebbe nel democratizzare un capitale simbolico che in passato era la cifra costitutiva delle élites. E qui Condello ravvisa nei propositi "riduzionisti" o "minimalisti", se non "abolizionisti" tout court, un grave pericolo: quello per cui un liceo classico ridotto nella sua specificità, oppure conservato ma per pochissimi "eletti", escluderebbe molte persone da quelle opportunità di uguaglianza ignote a tante altre scuole. Per Condello, i saperi ereditati, affinati e tramandati dal liceo classico, con le loro implicazioni storiche e culturali, non devono essere oggetto di una venerazione acritica: la tradizione, per citare Gustav Mahler, deve essere la custodia del fuoco, non l'adorazione delle ceneri. Sicché il patrimonio di conoscenze trasmesso dal liceo classico non deve essere a disposizione delle future generazioni perché venga passivamente venerato, ma perché sia conosciuto, criticato e discusso, sia confrontato ed eventualmente superato: superato nel senso del verbo tedesco aufheben, caro a Hegel, che vuol dire insieme "togliere", "sollevare", "conservare" e "superare"; proprio come il latino tollere, per restare nel campo della cultura classica (e non a caso il deverbale tedesco Aufhebung viene reso in inglese con il sostantivo sublation, derivante dal supino di tollere, sublatum).
E conclude: "Se il liceo classico non potrà mai essere, oggi come oggi, la scuola di tutti, per queste ragioni può essere e deve essere la scuola di tanti. E per queste ragioni avrà a cuore il liceo classico non chi ha a cuore il greco e il latino, ma chi ha a cuore una scuola giusta" (pp. 254-255).