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Hic iacet corpus. Tra ready-made e tracce materiali
Dal 14 maggio al 15 Giugno 2011, presso il Museo “Carlo Bilotti”, nell’Aranciera di Villa Borghese a Roma, si svolge la mostra di Riccardo Caporossi e Alfredo Pirri dal titolo “Hic iacet corpus”.
Le opere e le installazioni in mostra trasformano in una sorta di narrazione statica un’evidente mancanza: infatti, lo stesso titolo latino (Hic iacet corpus: “qui giace il corpo”) viene associato continuamente al tema dell’assenza. La materialità del corpo non è mai presente in prima persona, perché al suo posto subentrano le tracce e i frammenti che i corpi hanno lasciato dietro di sé.
Con queste tracce ci troviamo di fronte a una singolare dialettica tra presenza ed assenza: da un lato viene evocata la scomparsa o la sottrazione del corpo, dall’altra vengono ripercorsi i siti dove il corpo aveva sedimentato la sua fisicità. Del resto, se per traccia intendiamo “ogni forma di modificazione di una superficie che vale come segno o come promemoria per una mente capace di apprenderla come tale” (Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 250), allora sarà la mente a integrare gli oggetti mancanti con la sua immaginazione.
Così, l’icnologia, la teoria della traccia, si trasforma in una compiuta semiologia, una teoria dei segni, come da noi l’ha ben sviluppata Umberto Eco. Del resto, radicalizzando la nozione di traccia, come ha fatto il filosofo francese Jacques Derrida, intendendola cioè come “un passato che non è mai stato presente”, essa ci mette in rapporto con un’alterità assoluta, che va ben oltre l’opposizione presenza/assenza: queste opere sono come delle scritture che stanno al posto della traccia originaria che non possiamo rappresentare e tanto meno esporre. Ricordano il bloc notes magico di cui parla Sigmund Freud in un celebre saggio interpretato dallo stesso Derrida.
Molte delle opere esposte appartengono al genere del ready-made, ossia a quelle che Marcel Duchamp nei primi decenni del Novecento aveva codificato come opere d’arte ricavate da oggetti appartenenti alla realtà quotidiana, spesso modificati: quello che connota la loro artisticità è il fatto che si trovano in una situazione diversa da quella della loro utilizzazione corrente per essere proiettati nella dimensione museale ed espositiva.
Emblematici sono le scarpe e gli scarponi, le sedie e i seggioloni, i chiodi e i cappelli che Riccardo Caporossi espone nelle prime due sale. Alcuni di essi appartengono al genere degli “oggetti trovati” (found objects), ossia, come osserva Renato Barilli, dei “reperti usciti dal mondo di natura o da quello degli utensili e caratterizzati da un qualche grado di bizzarria, stranezza, forza di impatto sensoriale; oggetti, in ogni caso, esteticamente rilevanti in quanto in grado di stimolare in noi la reazione del bello, del brutto, del sublime, del volgare, del ributtante, del provocante” (L’arte contemporanea, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 189).
Questi oggetti ci riconducono all’interrogativo espresso da Martin Heidegger nel celebre saggio Der Ursprung des Kunstwerkes (L’origine dell’opera d’arte): “che cos’è questo carattere di cosa così potentemente presente nell’opera d’arte?”. E non a caso il filosofo tedesco cita come esempio le scarpe da contadina rappresentate in un celebre quadro di Vincent Van Gogh, osservando che “l’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità”.
Le considerazioni heideggeriane potrebbero estendersi anche alle scarpe qui esposte, considerate come opere d’arte e non come semplici “utilizzabili”: anche in esse “la verità dell’ente si è posta in opera”, cosicché “l’essere dell’ente giunge alla stabilità del suo apparire”.
Queste caratteristiche si ritrovano anche in altri oggetti esposti o in installazioni, in cui ad esempio udiamo una voce che narra; tipico del ready-made “aiutato”, in cui le macchine vengono contestate alla radice, con ironia e umorismo, è il caso delle pellicole cinematografiche che vengono oscurate e manipolate affinché formino una sorta di grande megafono simile alla tromba di un vecchio grammofono che amplifica onde invisibili.
Nelle altre sale viene valorizzata l’esperienza dello spettatore, che, camminando e muovendosi intorno agli oggetti, può alterare e cambiare frequentemente il suo punto di vista, trovando dei correlativi oggettivi della sua esperienza interna: è il caso dei tre coni illuminati da una luce rossa (Canti) o di altre opere di Pirri, come le scarpe disposte in fila accanto un filo rosso che ricorda quello di Arianna, lungo la “scala degli invisibili”; o come la bandiera italiana filiforme realizzata per le manifestazioni celebrative dei 150 dell’Unità d’Italia tenutasi presso il liceo “Tasso” di Roma. Quest'ultima opera è dedicata a Giorgio De Chirico, ossia all'artista che più è rappresentativo della collezione permanente del Museo e le cui tematiche (dai corpi che si trasformano in manichini quasi impercettibilmente al tempo evocato attraverso le ombre) presentano forti affinità con quelle della mostra.
In conclusione, una mostra che ci permette di capire come la fantasia artistica si muova nel territorio dell’atopia, ossia, come ha rilevato Remo Bodei (La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 86), in “quel luogo inclassificabile, irriducibile allo spazio della res extensa, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, né a quello – che ne è l'opposto speculare - dell'utopia, del non-esistente per definizione".