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Elektra all'Opera di Roma. Strauss ed il sussulto del sangue
Con la regia di Nikolaus Lenhoff, l'Elektra (terminata nel 1908, la prima l'anno successivo a Dresda) di Richard Strauss torna al Teatro dell'Opera di Roma dopo l'ultima volta nel 2004 con Brockhaus alla regia e Humburg alla direzione, ora affidata all'ungherese Stefan Soltesz. La parte principale di Elektra nel 2004 era ricoperta da Janice Baird, in questa coproduzione salisburghese, è affidata all'altrettanto potente voce di Eva Johansson, che da anni riveste la parte che per tutta l'opera permane sulla scena.
Le scenografie turrite di Raimund Bauer racchiudono il dramma di Elektra, la tragedia della vendetta, in una fortezza scarna e grigia, dove le ombre si aggirano come avvoltoi – le luci propositive di eventi di Duane Schuler – e le ancelle non annunciano che disgrazie o lamentano orrori. Il pastrano di Elektra – i costumi minimalisti sono di una collaboratrice fissa di Lenhoff, ovvero di Andrea Schmidt-Futterer – sono un'altra invenzione simbolica per rivelare gli abiti interni di Elektra: ogni qualvolta si toglie il cinereo soprabito, un velo della sua storia si solleva, a turno con la madre, la sorella, il “cacciatore” fratello Orest. La regia di Lenhoff in questo è regalmente inneggiante a questo gioco continuo tra svelamento e ombrosità, tra gli sguardi accecanti e allucinati di Elektra – una sorta di cadavere “in vita” come il vecchio marinaio di Coleridge, costretto a narrare la sua colpa, in entrambi i casi lo scopo della loro vita, con la differenza che per Elektra si tratta di un'azione non compiuta ancora, la vendetta del padre – ed una presenza annunciata continuamente dalla musica con il tema del padre morto composto da quattro note come il nome di Agamennon, mai pronunciato invece nel dramma originario di von Hofmannsthal.
Il libretto dell'autore - che per Strauss scrisse anche quelli di Salomé (1905) prima e poi di Der Rosenkavalier (1911), oltre ad Ariadne auf Naxos (1912-16), a Die Frau ohne Schatten (1919) e a Die ägyptische Helena (1928), – è stato di poco modificato da Strauss, se non per necessità di “allungamento” di alcune parti, e conserva con la musica – nonostante a Hofmannstahl non piacesse del tutto – una ferrea coerenza. Le parole si sostanziano amare e spartane, sgorgano esattamente come quel sangue che tanto si è sparso prima, e causa questa tragedia, di cui si aspergeranno i personaggi, ed annuncia il drakon (δράϰων) il monstrum in spirito di Agamennone, nel mattatoio livido e ceramico della fine, nelle forme di un cavallo d'ebano con una cresta da drago più che una criniera da destriero.
La musica arcana e ancestrale di Strauss ha creato con la tragedia ellenica di Sofocle, forse anche più in sintonia con la trilogia di Eschilo dell'Orestèa alla quale Elektra appartiene con Le Coefore, e d'impianto con la versione di Euripide, un unicum come voce della “tragedia” in musica: il dissonante accordo di Elettra – re bemolle maggiore su mi maggiore – insieme all'opposto si minore su fa minore di Klytämnestra, il triadico motivo di Agamennone ed il cromatismo esaperato di marca wagneriana quanto il modernismo sotteso a tutta l'opera, immergono l'ascoltatore in un'atmosfera di perenne tensione, mai stemperata. La voce che dall'abisso innalza l'imponente Elektra di Eva Johansson, le fa eco nella casa, fra i muri muti da cui si alzano solo le grida o le risa isteriche di Klytämnestra, una Felicity Palmer di pelliccia scarlatta che s'insinua con la dovuta obliquità nella parte più odiosa, affamata di sacrifici che la salvino dagli incubi atroci – staffilettate degli archi – che le palesano la sua prossima morte per mano del figlio Orest, cacciato via dopo avergli trucidato il padre insieme allo spietato amante Aegisth (Wolfgang Schmidt).
Le parti maschili di Orest – nella corretta versione di Alejandro Marco-Buhrmester – come il sunnominato amante, qui sono soprattutto logistiche: la prima per terminare il dramma, che si manifesta come un incontro tra innamorati dopo l'agnizione; la seconda per annunciare la danza macabra di Elektra, menade in preda alla gioia funesta del sangue. Il compimento del sacrificio rituale, altro non è questa vendetta agognata da lei come figlia “edipica” che fa risuonare il soffio della morte come un trionfo. Le uniche virate trascendenti à la Debussy, - che peraltro ha adoperato l'accordo di Elektra nelle Feuilles mortes – si odono quando lei parla di segni e del passato ad Orest, mentre per la sorella Chrysothemis – la parte più affettuosa affidata alla di viola abbigliata Melanie Diener – non prova nessuna pietà, avendo lei già rinunciato alla sua natura di donna.
La musica di Strauss, che si muove come ad ondate emotive, sottolineando pervicacemente il dramma assoluto di Elektra, la figlia condannata a vendicare la morte del padre Agamennone “re dei Re”, non si configura mai con note grigie, semmai oblique e striscianti come serpi, dipingendo col colore del sangue qualsiasi veste ed esultando nell'ossimorica “gioia della morte” che tripudia con il suo stramazzare finale mentre le Erinni attendono dietro l'angolo.
La buona direzione dell'ungherese Stefan Soltesz ben definisce i passaggi senza mai superare le voci e l'Orchestra segue con attenzione le indicazioni sulle impennate cromatiche e dissonanti straussiane. Da confrontare con la versione di Abbado con Éva Marton del 1989 e del 2006 con Christoph von Dohnányi e la stessa Eva Johansson come Elektra.