Glass e Stockhausen. La trascendenza dell'udibile

Articolo di: 
Teo Orlando
Trans

Il 20 gennaio 2011 la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica ha ospitato uno dei più suggestivi e singolari concerti della stagione di musica contemporanea, coordinati dal Progetto Calliope di Roma Capitale. Con il titolo Trans. La chiave segreta verso l’immortalità abbiamo assistito all’esecuzione di due brani di Philip Glass e di una composizione di Karlheinz Stockhausen, raccordati anche con il Festival delle scienze 2011, dedicato al tema La fine del mondo. Istruzioni per l'uso.

In realtà il primo brano di Philip Glass, "Sand Mandala", già presente nella colonna sonora del film Kundun di Martin Scorsese (tratto da La libertà nell’esilio, l’autobiografia del quattordicesimo Dalai Lama del Tibet, Tenzyn Gyatso), è stato eseguito per la prima volta in una performance dal vivo, nella quale si è deliberatamente scelto di esaltare il cantato in lingua tibetana, grazie alla partecipazione straordinaria di Tashi Lama, Maestro Cantore ufficiale del Dalai Lama.

Il concerto comincia preceduto da un sobrio gioco di luci verdi, che rimandano probabilmente all’idea della madre terra. Compare Tashi Lama, ascendendo lentamente una scala e collocandosi sul palco; intona il canto, con un’apparente gutturalità primitiva, insistendo su una nota grave, con una sorta di ripetizione ossessiva. Per alcuni versi ricorda una musica che descrive un’altra civiltà extraeuropea, ossia Uaxuctum. La leggenda della città Maya distrutta da essi stessi per ragioni religiose di Giacinto Scelsi, con i suoi echi e le sue vibrazioni prolungate. E una certa somiglianza si nota anche con il Requiem per soprano mezzo soprano, due cori misti e orchestra di Györgi Ligeti, usato da Stanley Kubrick per la colonna sonora di 2001. Odissea nello spazio. Dopo venti minuti, preannunciata da alcuni colpi di xilofono, si inserisce l’orchestra più marcatamente con le percussioni e con gli archi, ricordando le sonorità di un’altra opera di Glass, Koyaanisqatsi, ispirata alle leggende del popolo hopi.

Il testo cantato si fonda sul celebre Bardo Thodol, il cosiddetto Libro tibetano dei morti, redatto nell’VIII secolo d. C. dal “prezioso maestro” Padmasambhava, venerato in Tibet come il secondo Buddha. Il significato delle parole è irrilevante, perché ogni fonema, ogni sillaba, ogni vocabolo sono puri significanti, meri flatus vocis. Come ha giustamente osservato Guido Barbieri, “ciò che nel libro è scritto non esiste se non nel momento in cui si trasforma in ciò che non è scritto, ossia nella dimensione puramente fisica del suono”.

Più che di un “libro dei morti”, sarebbe più opportuno parlare di un carmen da recitare allorché si trapassa la misteriosa soglia che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Siamo in presenza di una sorta di partitura in cui ogni lettera diventa una nota e ogni parola costituisce il primo tassello per una melodia basata su variazioni minimali delle stesse sequenze, come è nella prassi compositiva di Glass. Del resto, i due termini che costituiscono il titolo del testo vogliono dire letteralmente liberazione (tho-dol) e soglia (bar-do). Non si allude tanto alla morte, quanto all’oltrepassamento del regno intermedio che il morente si appresta a compiere: si tratta di uno “spazio temporale” posto tra la vita che si sta abbandonando e la nuova vita in cui la mente dei morti si reincarnerà (in ciò simile alla metempsicosi o meglio alla metensomatosi dei pitagorici, a cui ha accennato il filosofo Remo Bodei nella sua conferenza tenuta nel Festival delle scienze, strettamente connesso con il concerto).

Il mantra recitato ossessivamente dal lama ha il compito di accompagnare colui che si appresta a lasciare il mondo dei vivi, insegnandogli che le immagini collezionate nella mente durante il tempo della vita mortale sono soltanto illusioni immaginative non prodotte da alcuna realtà sensibile: siamo in presenza di qualcosa di simile al velo di Māyā di cui parlano i Véda e i Purāṇa induisti, e che Arthur Schopenhauer identificava con un potere che circonda la coscienza umana inducendola a credere in un mondo che è un’apparenza senza consistenza e senza sostanza. Tutto si risolve in illusione, compreso il proprio io. Solo andando al di là delle porte della percezione di cui parlavano William Blake e Aldous Huxley possiamo liberarci dai limiti che i cinque sensi hanno sempre posto all’umanità.

Nel secondo brano, "Escape to India", entra il coro da camera del Conservatorio di Santa Cecilia, con effetti che ricordano l’opera Akhnaten dello stesso Glass, non a caso ispirata anch’essa a un libro dei morti, quello egizio attribuito al faraone Akhenaton. Le sequenze minimaliste di Glass vengono eccellentemente rese dal Parco della Musica Contemporanea Ensemble, con gli ottoni in bella evidenza e con un sapiente uso delle percussioni, affidate a Gianluca Ruggeri e Pietro Pompei (tra cui spiccano il gong a mammella thailandese, due piatti cinesi e due tavul, uno tunisino e l'altro marocchino).

La seconda parte del concerto è dedicata a Trans di Karlheinz Stockhausen. Il compositore tedesco ha preso spunto da un sogno risalente alla notte tra il 9 e il 10 Dicembre 1970, allorché, per usare le sue stesse parole, gli sembrò di contemplare “due file di archi da sinistra a destra, la seconda un poco sopra la prima. Suonavano in sincrono, in modo estremamente lento e forte, un vero muro di suono cromaticamente denso e compatto. Nello stesso tempo sentivo il suono di un telaio meccanico o forse un rumore di treni”. I suoni laceranti che poi trasfuse nell’opera sono da lui attribuiti a varie fonti, non ultimi i viaggi in estremo oriente che lo portarono a immaginare l’orchestra avvolta in una nebbia di colore rosso-violetto, la stessa luce che asseriva di aver visto più volte in meditazione al momento di chiudere gli occhi e di allontanare tutti i pensieri, in particolare durante un viaggio aereo al di sopra del Circolo polare artico.

Il sogno di Stockhausen viene riprodotto specularmente nella performance di Trans. Si apre una specie di sipario che mette lo spettatore di fronte agli archi dell’orchestra, disposti su due file sovrapposte e illuminati da una luce rosso-violetta. Gli altri strumenti, in particolare i fiati e le percussioni (tra cui spiccano cinque cimbali, un vibrafono, una sonagliera indiana e un set di campane tubolari), sono nascosti dietro le quinte (come anche il direttore), diventando così invisibili, ma non inudibili, per lo spettatore.

In effetti, gli archi eseguono una serie di accordi meccanici, con gli esecutori che somigliano ad automi o a marionette, mentre le autentiche variazioni sono affidate all’orchestra invisibile. Lo sviluppo successivo diventa più vario, con citazioni da Richard Strauss (Till Eulenspiegel), Béla Bartók (Musica per archi, percussioni e celesta) e Igor Stravinskij (Sinfonia per strumenti a fiato) e sonorità che ricordano anche altri ambiti musicali, come le sperimentazioni dei primi Pink Floyd in Ummagumma.

Improvvisamente si inserisce una stridula tromba solista, che esegue una melodia free jazz (possibile omaggio di Stockhausen al figlio Markus, trombettista jazz). La soglia qui è appunto simbolizzata dal continuo trapasso tra suono udibile e visibile e suono udibile ma invisibile: ciò produce una sorta di straniamento nell’ascoltatore, che viene così proiettato in uno stato di trance (si noti il calembour tra questa parola e il titolo dell’opera, Trans, che rimanda a una dimensione di trascendenza mistica), determinato dallo sdoppiamento spazio-temporale in cui inevitabilmente si trova, nel limen tra visibile e invisibile, udibile e inudibile.

Quest’idea di soglia, come lo stesso Stockhausen ebbe a osservare, rimanda alla condizione del morente. Siamo così di nuovo riportati alle tematiche del libro tibetano dei morti: non a caso il titolo originale di Trans sarebbe dovuto essere Musik für den nächsten Toden (Musica per chi sta morendo). E forse è proprio la musica, più che la letteratura (si pensi a La morte di Ivan Il'ič di Lev Tolstoj) o la filosofia (si pensi a Sein und Zeit [Essere e tempo]) di Martin Heidegger, che riesce a esprimere più compiutamente l’esperienza dell’indicibile, come ben aveva osservato Vladimir Jankélévitch nel suo saggio La musica e l’ineffabile.

Pubblicato in: 
GN37 Anno III 31 gennaio 2011
Scheda
Autore: 
Philip Glass - Karlheinz Stockhausen
Titolo completo: 

Trans. La chiave segreta verso l’immortalità

Roma, Auditorium Parco della Musica - Sala Sinopoli

Venerdì 20 gennaio 2011

Una produzione Fondazione Musica per Roma in collaborazione con il Conservatorio Santa Cecilia di Roma, Emufest e Monastero Tibetano di Drepung

Un evento di Contemporanea - "La fine del mondo. Istruzioni per l'uso" Festival delle Scienze 2011

Musiche di Karlheinz Stockhausen e Philip Glass

Bardo Thodol: il libro tibetano dei morti

con la partecipazione straordinaria di
Tashi Lama, Maestro Cantore ufficiale del Dalai Lama

Orchestra e Coro da camera del Conservatorio di Santa Cecilia
Solisti del PMCE Parco della Musica Contemporanea Ensemble
Tonino Battista direttore

regia del suono a cura dell’Emufest
 

Anno: 
2011
Voto: 
9