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David Grossman. L'apotropaico cerbiatto dell'amore
David Grossman intitola A un cerbiatto assomiglia il mio amore il suo libro sulle relazioni amorose ed amicali ed il loro percorso attraverso e nonostante la guerra dei sei giorni in Israele. Orah, Ilan, Adam, Avram e Ofer scioglieranno i loro cammini per reincontrarsi come in un rituale apotropaico.
Il titolo, tratto da un verso del Cantico dei Cantici di re Salomone, rimanda al significato del nome Ofer, che in ebraico significa cerbiatto. Ofer è il figlio intensamente amato da Orah, la protagonista del libro, ed è la causa scatenante di un viaggio che si rivela, nella sua modalità, un rituale apotropaico per allontanare la morte dal figlio soldato.
La presenza costante, incombente e devastante della guerra nella vita e nelle coscienze dei protagonisti è il convitato di pietra, lo spettro spaventoso che irrompe, sconvolgendo i rapporti affettivi dei protagonisti. Diverse sono le forme di scrittura impiegate nel racconto, dalla narrazione in terza persona, al dialogo serrato, al diario poi perso, al monologo interiore che diversificano i vari passaggi del libro con ritmi molto diversi, dalle descrizioni alle situazioni incalzanti, dai ragionamenti ossessivi quasi esasperanti, a riflessioni e dialoghi colmi di umanità e poesia.
Nell'irreale situazione del prologo, durante "la guerra dei sei giorni", i tre personaggi principali in isolamento in ospedale per una malattia infettiva, si incontrano e avviene il primo viaggio interiore: Orah adolescente riesce con Avram a rivivere ed elaborare il dolore della perdita della sua migliore amica: Ada. Orah, Ilan e Avram diventeranno più che amici, creando uno strano triangolo di cui la donna è il vertice, anche se, apparentemente, il suo rapporto amoroso è con Ilan, che sposerà e da cui avrà un figlio, Adam.
Il rapporto che si stabilisce già al primo incontro con Avram, il fascino della sua complessa e creativa personalità insieme all'amore appassionato che nutre per lei, forgiano un legame emotivo fortissimo che gli permetterà di riprendere - durante il loro peregrinare - un dialogo tragicamente interrotto.
Il viaggio, o meglio la fuga di Orah, è causata dall'ossessione dell'idea che solo rendendosi irreperibile e con continui spostamenti, a piedi e senza mai ripercorrere la stessa strada, potrà allontanare la morte dal secondo figlio Ofer avuto da Avram. Orah è di nuovo in compagnia di Avram, all'inizio estremamente riluttante e poi sempre più coinvolto in un vagabondaggio, che avviene in Galilea, ma soprattutto in un viaggio interiore nei loro sentimenti reciproci.
Avram è devastato dalla prigionia e dalle feroci torture, subite dagli egiziani nella guerra dello "Yom Kippur" e per di più, alla sua liberazione, non venne creduto dai servizi segreti e per questo fu sottoposto ad estenuanti interrogatori. Dopo questa esperienza rifiuta la vita e con essa il rapporto di amicizia con Orah e Ilan, che lo assisterono nella lunga degenza ospedaliera, insieme al figlio, di cui nulla ha voluto sapere. Sul muro dietro la spalliera del suo letto, però, Avram ha tenuto il computo dei giorni del servizio militare obbligatorio con dei segni, una sorta di rito apotropaico come quello di Orah per tenere lontana la morte da Ofer.
Durante il vagabondaggio, mentre la donna parla del loro figlio, lentamente torna alla vita, riuscendo anche a rivivere la terribile esperienza, che ha lasciato orribili cicatrici nel suo corpo ma soprattutto nella sua anima e mostra di voler conoscere ogni particolare non solo di Ofer, ma anche della loro vita familiare e l’incalza di domande. Orah, nel dipanare i suoi ricordi, prende coscienza di fatti e reminiscenze di cui aveva perso memoria o a cui non aveva dato peso, rendendosi conto che nei suoi vent'anni d'amore felice era riuscita ad isolarsi, a vivere inconsapevolmente la realtà, e che solo il servizio militare dei due figli aveva fatto sì che irrompesse di nuovo nella sua vita, mettendo in crisi il suo rapporto con Ilan e Adam.
Come nei romanzi classici inglesi, il vagabondaggio è costellato di incontri occasionali che non fanno perdere il contatto con la realtà, suscitando riflessioni e dove la natura non è solo lo sfondo, ma anche una presenza, che si percepisce amata dallo scrittore. Gli Arabi sono “Presenze” aliene, inquietanti e potenzialmente pericolose: persino Sami, l'autista del taxi con cui Orah ha un lungo rapporto di familiarità, si rivela all'improvviso estraneo ed ostile.
Questa è una parte del libro che rende tangibile al lettore la distanza che c'è tra le persone appartenenti alle due comunità, suscitando riflessioni molto pessimistiche riguardo ad un possibile dialogo, che possa portare alla pace. Il libro non ha una vera e propria conclusione e potrebbe continuare all'infinito, come il viaggio verso la conoscenza di sé e dei propri sentimenti, che termina solo con la morte e che, fino ad allora, si rivela aperto alla speranza.