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Santa Cecilia. Ravel ed i ditirambi magico iberici
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia un programma tutto dedicato a Maurice Ravel, a cominciare dal celebre Boléro, ma anche attraverso l’arduo Concerto per la mano sinistra, il Concerto in sol, il balletto completo di Ma mère l’Oye e la fatata suite da Daphnis et Chloé. Completano il programma delle due serate del 16 e 17 giugno 2011 l’Alborada del gracioso e la Rhapsodie espangole. Insieme all’Orchestra dell’Accademia ed al suo Coro per Daphnis et Chloé, Andrea Lucchesini il 16 e Roberto Cominati il 17 giugno per le parti soliste al pianoforte, entrambi diretti da Gabriele Ferro.
L’Alborada del gracioso (1923), il quarto movimento, è sicuramente il più conosciuto, di Miroirs (1905-06) di Maurice Ravel (1875-1937), compositore basco eminentemente influenzato dalla sua terra d’origine ai confini con la Spagna: il brano è stato dedicato a M. D. Calvocoressi, uno dei compositori del gruppo impressionista Les Apaches (anche gli altri movimenti sono stati dedicati ognuno ad uno dei membri di Les Apaches), nato intorno al 1900 e di cui facevano parte sia Stravinskij sia de Falla. Eseguito come da programma il 16, il bis del 17 giugno al piano solo di Cominati è stato particolarmente apprezzato, per un brano di pregnante atmosfera spagnola che fa riferimento nel titolo ad una mattinata con una sorta di clown (il “gracioso” del titolo), dipinta nel tessuto musicale con estrema brillantezza e la direzione di Gabriele Ferro, il 16, sicura e vivace. Intimo e aggraziato fa pensare nelle variazioni anche a sapori “italiani” che terminano in una rutilante coda briosa, più rilevante nei timbri nella versione per orchestra.
Il Concerto in sol maggiore per pianoforte ed orchestra (1929-31), a cui accede Andrea Lucchesini con confidenziale sobrietà, è di scrittura chiara e dinamica, con qualche episodio che scompagina dal versante iniziale e profondamente allegro del concerto. Tempi alternati e sincopati riconducono ad influenze rapsodiche in blue, à la Gershwin, che Ravel conobbe ed ammirò; i brevi inserti degli archi conducono poi alla rarefazione impressionistica dell’Adagio assai, la cui vena malinconica si appropria in ogni caso di una leggerezza di fondo in cui i legni provocano una virata diafana alle note del piano. Sul Presto si accendono le luci della ribalta, i tempi sono veloci, accennano un valzer, ritornando poi sulle ribattute con un seguito in cui esplode il colore. Nel bis del Preludio in sol minore op.23 di Rachmaninoff, Lucchesini infiamma le dita su note ribattute ed in un crescendo fervido e dalla connotazione romantica, in cui a nostro avviso si è dimostrato più ispirato.
Di tutt’altro respiro invece il coevo Concerto per la mano sinistra in re maggiore (1929-30), commissionato da Paul Wittgenstein (1887-1961), talentuoso e agiato pianista – fratello del filosofo Ludwig – in cui si sperimenta l’espressività completa di Roberto Cominati al piano, in special modo nell’Allegro e nell’ultimo movimento (Tempo primo) a chiosa. Wittgenstein aveva perso il braccio destro nella prima guerra mondiale ed aveva già commissionato lavori a Britten, Hindemith, Strauss e Prokofiev, eppure, nonostante la sontuosa ed originale partitura, Wittgenstein non apprezzò il pezzo, soprattutto per gli inserti jazzistici che non aveva acquisito a livello stilistico.
Il respiro grave dell’inizio del Concerto, in cui i contrabbassi svelano un’armonia inafferrabile, mentre il piano si “fonde” su note altrettanto gravi, dà luogo ad una schiaritura progressiva su ritmi convulsi e passaggi tra tempi binari e ternari, sempre divincolando l’orchestra dal pianoforte. Cominati svetta soprattutto nelle parti auliche e di colore, mentre l’entrata forte delle percussioni a ritmo di marcia cui il piano si adegua, allinea finalmente i due fili musicali, elevando i toni nel momento in cui il piano si accorda con l’arpa, in un dialogo rarefatto. L’orchestrazione si espande a ritmo sostenuto per terminare in una coda ridondante tra le virate magiche del pianoforte.
La Rhapsodie espagnole (1907-08), apprezzatissima da Manuel de Falla (1876-1946), è una composizione di una raffinatezza inusitata e misteriosa, quasi karmica: si incentra su un passaggio reiterato di quattro note ed ha il sapore dell’opera che comporrà nello stesso periodo, L’heure espagnole (1907-09) e, naturalmente, il Boléro. Il Prélude à la nuit (Molto moderato) è un effluvio di note di cui non si conosce la direzione, con momenti lievi ed altri più lirici. La successiva Malagueña (Molto vivo) espone con briosità il motivo reiterato che affiora sulla scena come una danza; l’Habanera (Molto lento e con un ritmo elastico), originalmente scritta per due pianoforti, come il resto della composizione, fa prendere vita e colore alle percussioni. La Feria (Molto animato) ci trasporta in un mondo incantato che irrompe, come in Ma mère l’Oye e Daphnis et Chloé, su una prodigiosa marcetta, in cui di nuovo le percussioni si accendono di folclore iberico. Incursioni quasi da Porgy and Bess di Gershwin risuonano tra gli ottoni.
Il Boléro (1927), tempo di bolero, moderato assai, nasce come musica per balletto commissionata dall’attrice e ballerina Ida Rubinstein ma la sua fama è andata ben oltre, realizzandosi come brano autonomo di sorprendente fascino. La ripetizione ossessiva, delicatissima e lenta all’inizio di uno stesso tema - suddiviso in due frasi distinte di 16 battute ciascuna, l'una in do maggiore, l'altra nel più morbido do minore - ed un unico ritmo di bolero in tempo assai moderato ed in un crescendo che coinvolge, allargandosi, a tutta l’orchestra, ha il sapore di una grande cavalcata erotica sulle ali di un desiderio che si nutre di incrementi progressivi. La roboante ripresa e coda finale segnata dagli orgiastici glissandi dei tromboni è condotta egregiamente dal direttore Gabriele Ferro che ha mantenuto costante il ritmo in salita nei tempi indicati da Ravel (lenti: Ravel protestò con Toscanini per la sua conduzione rapida nei tempi, all’Opéra di Parigi il 4 maggio del 1930).
Il balletto Ma mère l’Oye fu nel 1908 scritto per piano e poi, nel 1920, trascritto per orchestra con l’aggiunta di due nuovi pezzi: il Prélude (Preludio) e la Danse du rouet et scène (Danza del filatoio e scena). Pensata come regalo per Mimia e Jean Godebski, figli del suo amico Xavier Cyprien Godebski (1874 - 1937), la cui casa lo accoglieva spesso insieme ad altri musicisti e pittori ed al quale si legò in confidenza, Ma mére l’Oye è un delizioso quadro sonoro tratto dalle favole di Perrault, di Madame d’Aulnoy e Madame Leprince de Baumount. Di delicatissima fattura, ha un attacco lento e fantasmagorico con qualche virata dissonante e colori à la Debussy (che aveva composto nel 1907 la suite per piano The Children’s Corner, dedicata al mondo dell’infanzia), dotati di lirismo che si accende d’improvviso di toni gravi nella Danse du rouet et scène (Danza del filatoio e scena). L’inperpicarsi e lo scorrere misterioso della seguente Pavane de la Belle au bois dormant (Pavana della Bella addormentata nel bosco) si flette su ditirambi magici in 4/4; Les Entretiens de la Belle et la Bête (Le conversazioni della Bella e la Bestia) è incantevolmente costruita sull’intensificarsi di un segreto i cui timbri sono appena accennati e svaniscono di sghembo. Petit poucet (Pollicino), un sentiero su accordi di terza insieme al tintinnare d’inusitati suoni provenienti dal bosco, immettono nella marcetta orientale di Laideronnette, impératrice des pagodes (Laideronnette, imperatrice delle pagode) con lo xilofono in primo piano ed uno spirito russo nelle variazioni e nei colori (Musorgskij i Quadri da un’esposizione, 1874 la Shéhérazade di Rimsky-Korsakov, 1888). La tessitura dell’ultima sezione di Le Jardin féerique (Il giardino fatato), melanconica e leggerissimamente struggente con l’eccezionale primo violino solista Carlo Maria Parazzoli, introduce la parte più sentimentale e romantica, che in seconda istanza alza i toni nei glissati e rivela una grande apertura lirica e risonante nella sua apoteosi.
Il balletto Daphnis et Chloé per orchestra e coro senza testo (completo è della durata di un’ora circa), è una sinfonia coreografica, come affermano le stesse parole dell’autore che lo compose tra 1909 e 1912 per la compagnia Balletti Russi di Sergej Diaghilev, con la coreografia di Michel Fokine, le scenografie originali di Léon Bakst e il primo ballerino, nel ruolo di Daphnis, Vaslav Nijinski, l’8 giugno 1912 nella prima al Théâtre du Châtelet. La suite fu orchestrata da Ravel nel 1911 con tre brani: Lever du jour (Alba); Pantomine (Les amours de Pan et Syrinx) e Danse générale (Bacchanale).
La storia d’amore tra due pastorelli, Daphnis e Chloé appunto, dipinta dal greco Longo Sisifo tra II° e III° secolo, viene musicata da Ravel come se una lontana reminescenza brillasse tra timbri e voci amene, albeggiando ed imitando nei suoni il naturalistico paesaggio evocato con estremo dettaglio. Le arpe colorano di fatate armonie il tema centrale dalle plurime aperture, su cui il flauto si adagia insieme al violino. Il folclore risplende in una tarantella in un respiro sinfonico che ricorda La mer di Debussy, mentre i piatti delineano il tema di nuovo insieme alla rincorsa degli archi e del coro a chiosare con vigore la danza, che Ferro ha condotto con delicata oculatezza.