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Santa Cecilia. Le suggestioni italiane di Gardiner
Per la prima volta a Santa Cecilia dal 14 al 16 marzo 2019 è salito sul podio, per dirigere l'omonima orchestra, Sir John Eliot Gardiner, uno dei direttori d'orchestra più celebri del mondo, fondatore del Monteverdi Choir, degli English Baroque Soloists e dell'Orchestre Revolutionnaire et Romantique. Pur specializzato nel repertorio barocco su strumenti d'epoca e con scelte esecutive di grande raffinatezza, a Santa Cecilia Sir John Eliot ha voluto stupire proponendo alcuni capolavori "segreti" dell'Ottocento romantico. Il programma era infatti imperniato su Hector Berlioz, di cui ha proposto Le Carnaval romain e il poema sinfonico Harold en Italie, e su Antonin Dvořák, di cui ha proposto la Settima sinfonia op. 70.
Certo, sarebbe stato più semplice e di più grande richiamo (avrebbe probabilmente riempito la Sala Santa Cecilia, che invece era piena solo a metà) proporre di Dvořák la Sinfonia fantastica e di Dvořák la Sinfonia n. 9 "Dal nuovo mondo", i brani più celebri e popolari del compositore francese e di quello boemo. Ma va riconosciuto a Sir Gardiner un notevole coraggio, nell'attingere invece a un repertorio meno consueto, ma non meno interessante e seducente per un orecchio sensibile e che sappia ascoltare con disponibilità e attenzione per le sfumature.
Il primo brano era la breve e trascinante ouverture chiamata “Le Carnaval romain”. Si tratta in realtà di una composizione derivata dalle melodie dell'opera Benvenuto Cellini, che andò in scena a Parigi nel 1838. La breve composizione inizia con un brillante e rapidissimo Allegro assai con fuoco, che dopo una ventina di secondi lascia il campo a un Andante sostenuto: si nota la straordinaria somiglianza, voluta dal compositore stesso, con il duetto d'amore tra Benvenuto Cellini e Teresa Balducci incluso nell'opera lirica (O Teresa, vous que j'aime plus que ma vie). Nell'Allegro Vivace ci spostiamo davvero nel cuore di Roma, perché si tratta della melodia che nell'opera caratterizza la scena del martedì grasso a piazza Colonna. Dopo una ripresa dell'Andante sostenuto, il brano volge al termine con un saltarello carnevalesco seguito in conclusione dai temi combinati dell'Allegro vivace e dell'Andante sostenuto. Insomma, un gioiellino che racconta euforicamente dei giorni di festa a Roma (che Berlioz conobbe da borsista di Villa Medici, vincitore del Prix de Rome), dove il ritmo campeggia nel pur complesso tessuto orchestrale, sapientemente cesellato da Sir John Eliot.
Il secondo brano è la Settima Sinfonia in re minore di Antonin Dvořák, che il compositore boeme scrisse nel il 1884, distaccandosi dalle consuete atmosfere del folklore slavo che avevano reso famoso il musicista ceco, per virare verso sonorità beethoveniane e brahmsiane. Del resto, Dvořák aveva appena ascoltato e ammirato la Sinfonia n. 3 di Johannes Brahms, circostanza che, insieme a un invito della London Philharmonic Society, lo indusse a scrivere una nuova sinfonia. Il brano si apre con un Allegro maestoso, nel quale violoncelli e contrabbassi quasi si flettono per scaricare momenti di energia e tensione, adombrati nelle stesse parole con cui il compositore annunciò a un amico la sinfonia: "Ora sono impegnato con questa sinfonia per Londra, e dovunque io vada non riesco a pensare ad altro. Dio conceda che questa musica ceca faccia muovere il mondo". Il tono si mantiene sempre severo e grave con il primo tema molto cupo, mentre il secondo è più arioso e melodico, con flauti e clarinetti che progressivamente cedono agli archi (si coglie una reminiscenza dell'Andante del Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Brahms). Dopo aver raggiunto una climax di grande potenza sonora, il movimento si conclude con le stesse cupe sonorità iniziali.
Il secondo movimento, Poco Adagio, alterna melodie struggenti, dovute a flauti e oboi, con vari temi affidati a clarinetti e corni, cesellate con grande abilità formale e strutturate a partire da una sorta di corale religioso degli strumenti a fiato, fino addirittura all'evocazione dei cromatismi "decadenti" del Tristan und Isolde wagneriano.
Il terzo movimento, Scherzo, è forse quello più celebre: qui si incrociano la tradizione boema, con temi danzanti affidati al fagotto e ai violini, con melodie reminiscenti dell'Italia, che si scorgono nel Trio, che ha un carattere essenzialmente melodico, dove il contrappunto gioca abilmente per metterlo in evidenza rispetto alla sezione ritmica precedente e a quella successiva.
Il quarto movimento, Allegro finale, evidenzia la ricerca preponderante di ritmi sovrastanti le melodie, tratto tipico di Dvořák: dall'iniziale tema, quasi tzigano, al tema successivo che assume l'andamento in fortissimo di una marcia. Infine, la sinfonia termina con una rimodulazione elegiaca in la maggiore e con le riprese degli altri temi, fino a culminare nel finale di nuovo con il ritmo di marcia.
La direzione di Gardiner ha ben saputo esaltare le sonorità rotonde e i ritmi scanditi e coinvolgenti della sinfonia, di cui si è messa in evidenza anche il debito verso i maestri germanici, più che l'ancoraggio al follkore slavo.
Il concerto si conclude con l'Harold en Italie dello stesso Berlioz, uno dei primi esempi di quel genere chiamato poema sinfonico o sinfonia “a programma”, o poema sinfonico, reso poi famoso da Franz Liszt e Richard Strauss. In questo caso il testo letterario che sottende la tessitura sinfonica è costituito da un poema di Lord George Gordon Byron, ossia il Childe Harold's Pilgrimage, un poema narrativo in cui lo scrittore inglese descrive i viaggi e i le aspirazioni di due personaggi che vagano romanticamente tra il Mediterraneo e il Mar Egeo, disillusi dall'esistenza borghese ed esausti delle guerre dell'età successiva alla Rivoluzione francese e all'età napoleonica. Il colpo da maestro di Berlioz però consistette nell'aver inserito nella partitura (per probabile ispirazione di Paganini) anche una viola solista, che interpreta e incarna il personaggio Harold, mentre i luoghi e gli eventi sono affidati all'orchestra, quasi in una dialettica di soggettivo e oggettivo, così tipica del titanismo romantico e delle coeve filosofie idealistiche.
Il primo movimento (che potremmo anche chiamare, narrativamente, "episodio") si apre con un Adagio che descrive Aroldo mentre vaga per i monti, preceduto da un preludio orchestrale: è la viola che poi si inserisce prepotentemente a intonare il tema iniziale, quasi un Leitmotiv che accompagna Aroldo e che si connota per una dolente e sofferente natura elegiaca, in cui si riverberano esperienze autobiografiche dello stesso Berlioz (che sottolinea "le scene di malinconia, di felicità, e di gioia”). La viola solista è mirabilmente suonata da Antoine Tamestit, che intona il primo tema preceduto dai lievi accordi di un'arpa.
Il secondo movimento è un Allegretto dove si combinano echi barocchi con echi romantici: il suono della campana di un convento annuncia l'Angelus, ed evoca cori di penitenti in pellegrinaggio. Di nuovo, la viola funge da contrappunto, quasi che Harold voglia partecipare anche lui al pellegrinaggio (con poco afflato religioso, in verità, a differenza dei pellegrini del Tannhäuser di Wagner). Nel terzo movimento assistiamo alla “Serenata di un montanaro d’Abruzzo alla sua amata". Anche qui si scorgono elementi autobiografici, perché durante il soggiorno romano il compositore si recava a piedi in Abruzzo armato di un fucile e di una chitarra, dormendo nelle grotte o nelle edicole delle Madonne sparse nel territorio, come rimedio allo spleen che lo attanagliava. Qui dominano le melodie e le armonie popolari, con le sezioni ritmiche scandite dal flauto e dall'oboe, mentre la viola solista commenta la scena con triste languore.
Il finale, "orgia dei briganti”, è un Allegro frenetico, con l’orchestra che prorompe in vari pienissimi e i musicisti che si alzano in piedi il brano mentre la viola si sposta fino a uscire quasi fuori dal palco. Il pubblico giustamente tributa una standing ovation, per un direttore che ha quasi rinverdito i suoi esordi nella magnifica Sala dedicata a Santa Cecilia.