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Istituto Centrale per la Grafica. Velly e la trama simbolica del mondo
Una nuova mostra all’Istituto Centrale per la Grafica di Fontana di Trevi a Roma. La presentano insieme Tiziana D’Acchille, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma e Maria Antonella Fusco, dirigente dell’Istituto Centrale per la Grafica. Si intitola: “Jean-Pierre Velly. L’Ombra e la Luce”, nata da un’idea di Pier Luigi Berto e Pierre Higonnet, è stata curata da Pier Luigi Berto e Marco Nocca per l’Accademia di Belle Arti e da Ginevra Mariani per l’Istituto Centrale per la Grafica e si potrà visitare fino al 15 maggio 2016.
Le sale sono grandi, ma un po’ buie e dimesse, le incisioni, i dipinti, i disegni sono numerosi, ma eterogenei. Andando oltre l’apparenza, il messaggio dell’artista irrompe e si può cogliere con evidenza, anche allontanandosi da quanto scritto nell’impegnativo catalogo edito da L’Erma di Bretschneider (con i contributi dei curatori, una testimonianza di Vittorio Sgarbi, i testi di Marco Di Capua, Pierre Higonnet, Gabriele Simongini, Catherine Velly, Vinicio Prizia; le schede di Giovanna Scaloni).
Una frase della figlia ci apre la porta per entrare nelle stanze ora vuote di Jean-Pierre Velly (Audierne 1943 – Trevignano 1990): “Siamo sempre e per forza figli del nostro tempo, con la mente e la carne. Le nostre sensibilità, poi, avvertono altre temporalità, anacronistiche, le vivono e le soffrono, e così era lui, così era mia madre, anch’ella artista. Perché così sono gli artisti, i poeti del mondo”(Catherine Velly, “Mio padre”, in: AA.VV., L’Ombra e la Luce, Roma 2016). Sincronia e anacronismo, Velly era artista formatosi negli anni ’60, età dorata del Novecento. Un’epoca posta alla congiunzione di passato e di futuro: sospesa in prossimità dell’arcaico e insieme proiettata verso il futuro remoto. Una indicazione utile per non seguire con eccessivo compiacimento la vulgata maledettista e funeraria su Velly, facendosi sfuggire la sua vena simbolista e “gotica”. Lo “Zeitgeist”: il sentimento apocalittico e psichedelico si esprimeva, in quel decennio, nel disegnare e nell’illustrare, nel valicare dentro l’immagine “le porte della percezione” spazio-temporale. In effetti, si tratta di capire perché durante il ’68 si siano letti avidamente: Leautréamont e Sade, Melville e Poe, Hesse e Borges, si siano studiati i dipinti di Bosch e di Magritte, si siano guardati i film di Bergman e di Buňuel.
A venticinque anni dalla tragica scomparsa di Jean-Pierre Velly, a Roma si cerca di dargli il posto che gli compete nella cerchia dei grandi artisti contemporanei. Dopo gli studi giovanili alla “Scuola delle belle arti” di Tolone e alla “Scuola Nazionale Superiore delle belle arti” di Parigi, Velly vinse nel 1966 le “Grand Prix de Rome” per l’incisione. Fu ospite a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia dal 1967 al 1970 (era l’epoca della direzione di Balthus) e scelse, subito dopo, di fermarsi vicino Roma e di stabilirsi con la famiglia a Formello, dove visse e lavorò per 20 anni. Durante una gita in barca, cadde e scomparve nelle acque del lago di Bracciano a soli 46 anni.
Una incisione archetipica apre l’itinerario espositivo: è la “Melencolia I” di Albrecht Dürer e si pone come codice di lettura delle opere che seguono. La malinconia va considerata come un’accentuata coscienza di sé, come una particolare forma di consapevolezza che, lungi dall’estraniare il soggetto dal mondo, gli permette di dedurre dall’osservazione delle cose particolari il loro significato esoterico. Lo stesso può dirsi del mondo onirico, inteso come la scoperta di una trama simbolica del mondo non cancellata dalla civilizzazione razionalistica ed economica. La mostra all’ICG conserva lo spessore del simbolo e suggerisce un percorso interno al nucleo poetico di Velly costruito sulla base di una metafora alchemica: le diverse fasi del lavoro artistico di Velly (dall’incisione al disegno, dall’acquerello alla pittura) diventano altrettanti stadi di un processo di morte e di risveglio psichico ed esistenziale. È la traccia di Carl Gustav Jung che univa alchimia, psicologia e arti.
Nella prima sala, Nigredo si allude allo stadio della trasformazione della materia con i disegni preparatori e le prove da cui emergono le visioni, le straordinarie incisioni a bulino, che esaltano il bianco e la luce sottraendoli al nero e al buio. La "nigredo", prima e oscura fase di ogni processo alchemico, vede la morte dell'Io e dei suoi desideri personali. La seconda sala, dedicata al risveglio dell’Albedo, rimanda alla purificazione della materia, all’emergere dell’anima dal corpo e del bianco dal nero. Qui Velly stesso accoglie i visitatori con una parete dedicata ai suoi celebri Autoritratti. Seguono gli acquerelli e i disegni a punta d’argento, una tecnica in uso presso i maestri rinascimentali. Erompono le figurazioni della donna, ma anche degli insetti e degli animali. La terza sala, quella della rinascita del colore e della vita nella Rubedo, offre una selezione dell’opera pittorica di Velly e delle sue figurazioni cromatiche di fiori e piante, di paesaggi in dissoluzione. Il mondo procede per rinascita e morte.
L’opera di Velly dimostra quanto sia stata profonda la sua conoscenza delle tecniche artistiche più antiche, ma al tempo stesso la sua opera rivela un sentimento del contemporaneo che si immerge nelle forme arcaiche per trarne una visione del presente come eternità, come ciclo. In effetti Jean-Pierre Velly irruppe sulla scena dell’arte degli anni ’70 e ’80 – tra pop art, concettualismo e transavanguardia - come un’anomalia, come una voce profonda e densa che si sottraeva per ricchezza di idee a quel sistema di omologazione tecnologica e mass-mediale così invasivo e nefasto per il destino delle arti contemporanee.