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Più libri più liberi 2022. Da Adrianopoli al totalitarismo fascista
Anche quest'anno, dal 7 all'11 dicembre 2022, la Nuvola di Fuksas, all'Eur, ha ospitato Più libri più liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori (AIE), originariamente e fino al 2016 allogata nel Palazzo dei Congressi del medesimo quartiere. L’evento editoriale, dedicato agli editori italiani piccoli e medi (tra cui anche Carocci, Il Mulino e Laterza), ancora una volta si interroga sui grandi temi del nostro tempo. Tra questi, la guerra, che è tornata a insanguinare il cuore dell'Europa, tra Ucraina e Russia, un dramma che credevamo non potesse mai più verificarsi nel nostro continente.
500 espositori, provenienti da tutto il Paese, hanno presentato al pubblico le novità e il proprio catalogo. Cinque giorni e oltre 600 appuntamenti in cui si sono ascolati molti autori, con la possibilità di assistere a dialoghi, letture, dibattiti e incontrare gli operatori professionali. Un programma particolarmente ricco di ospiti nazionali e internazionali, che portano a Roma il respiro senza confini di grandi tematiche sociali e politiche, filoni letterari che appassionano i lettori e suggestivi intrecci di stili e contenuti. Il tema fondamentale della fiera è Perdersi e ritrovarsi: ci sono fili, come quelli del mare di Lorenzo Mattotti – che anche quest’anno firma l’immagine della manifestazione – sui quali galleggiamo e fluttuiamo, quasi cavalcando le onde di fatti e invenzioni. E ci rendiamo conto, a poco a poco, che questo è ciò che per secoli è stato il Mediterraneo.
Un mare dove si sono incrociate lingue e umori, povertà e ricchezza, intellettualità e commercio, religioni e ateismi, letteratura e scienza, come metafora di tutti i mari e di tutte le tempeste. E le tempeste come turbamento ma pure come occasione, come momento da assaporare. Godersi la tempesta significa osservarla. Raccogliere ciò che resta dopo, ricostruire se possibile, raccontare se non si può fare altro. Apprezzare la tempesta è complicato perché significa accettarla e accettandola tentare di sopravviverle, come ci ricorda Lucrezio nel III libro del De rerum natura (Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,/e terra magnum alterius spectare laborem. È gradevole, quando nel vasto mare i venti sconvolgono le distese marine,/da terra guardare il grande affanno di un altro).
L'8 dicembre abbiamo assistito a due splendide conferenze di storia. Emillio Gentile, forse il maggior storico vivente del Ventennio, ha tenuto una lectio magistralis sulla natura totalitaria del regime fascista, in occasione della pubblicazione del suo monumentale libro sulla Storia del fascismo, edito da Laterza. Lo storico Alessandro Barbero ha invece parlato della battaglia di Adrianopoli, un evento storico cruciale eppure oggi quasi dimenticato, e a cui ha consacrato il libro 9 agosto 378. Il giorno dei barbari, da poco ristampato da Laterza in un'edizione illustrata da Sergio Toppi.
Con una brillante e molto applaudita conferenza, Gentile ha esaminato la trasformazione del fascismo da semplice movimento politico in regime totalitario. Ha preso le mosse dal 16 novembre 1922, quando Mussolini, da alcuni imprevidenti giornalisti definito il «cadavere in stato di putrefazione» in occasione della sconfitta elettorale di tre anni prima, pronunciò alla Camera il suo primo discorso da presidente del Consiglio. Del resto, era stato nominato il 30 ottobre, dopo che, come duce del Partito nazionale fascista (un partito armato, che aveva trecentomila militanti e appena un anno di vita), il 28 ottobre 1922 aveva capeggiato un’insurrezione per costringere il capo dello Stato a conferirgli l’incarico di formare il nuovo governo: un semi-colpo di Stato, con il vero responsabile in attesa a Milano, mentre i suoi cosiddetti quadrumviri (De Bono, Balbo, Bianchi e De Vecchi di Val Cismon) entravano tronfi e trionfanti in Roma.
A quel punto il Partito fascista al governo cominciò la demolizione del regime liberale, conquistando il monopolio del potere, mettendo al bando tutti gli altri partiti e instaurando un regime monopartitico che gli antifascisti definirono "totalitario" con un felice aggettivo di neoconiazione.
La rapidità dell'ascesa al potere di Mussolini, secondo Gentile, fu la più straordinaria singolarità nella storia del ventesimo secolo: verificatasi appena tre anni dopo la fondazione del primo nucleo del movimento con cinquanta aderenti, presenta sì analogie con il bolscevismo di Lenin, ma questi dovette attendere quattordici anni prima di riuscire a conquistare il potere con un colpo di Stato. Anche Adolf Hitler e il Partito nazionalsocialista ebbero bisogno di tredici anni per giungere al governo seguendo la via elettorale. Un'altra peculiarità straordinaria del fascismo, nel corso della sua storia, furono le sue metamorfosi: all'origine fu un movimento antipartito, che divenne partito-milizia, poi partito di governo, e infine, e quasi paradossalmente, regime totalitario in uno Stato monarchico, che divenne Stato imperiale e razzista e potenza alleata e sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Senza dimenticare che, dopo essere crollato come regime all'interno della monarchia, rivisse per 584 giorni come repubblica improvvisata, solo apparentemente sovrana e indipendente (in realtà controllata dai tedeschi), prima di essere definitivamente sconfitta e diventare storia del passato.
Del resto, fu l'antifascista Giovanni Amendola a riscontrare in tutta la celebrazione della «marcia su Roma» la caratteristica peculiare di un movimento che aveva l’ambizione di perpetuare nel tempo il suo potere: «Veramente la caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà, per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito ‘totalitario’; il quale non consente all’avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano, come non consente al presente di nutrire anime che non siano piegate nella confessione ‘credo’».
Un altro celebre antifascista che usò l'aggettivo "totalitario" fu Lelio Basso, in un articolo intitolato L’antistato, uscito in prima pagina il 2 gennaio 1925 sulla rivista di Piero Gobetti (morto di lì a poco a Parigi per i postumi delle violenze squadristiche) «La Rivoluzione Liberale» e firmato con lo pseudonimo di Prometeo Filodemo. Da una prospettiva marxista, Basso analizzava la novità dello "Stato fascista" rispetto allo Stato liberale: «Lo Stato fascista ‘non solo si difende ma attacca!’ In altre parole, lo Stato fascista non si limita a tutelare l’ordine costituito con un ordinamento giuridico all’uopo adatto, e nell’ambito del quale sia concesso alle forze contrarie di preparare il terreno per una nuova forma di convivenza sociale; esso rappresenta l’universo popolo, esclude che possa esservi un movimento a sé contrario o comunque diverso, e se qualcuno pur timidamente si mostra, tenta distruggerlo irrimediabilmente. Quando siam giunti a questo punto, quando tutti gli organi statuali, la Corona, il Parlamento, la Magistratura, che nella teoria tradizionale incarnano i tre poteri, e la forza armata che ne attua la volontà, diventano strumenti di un solo partito, che si fa interprete dell’unanime, e la forza armata che ne attua la volontà, diventano strumenti di un solo partito, che si fa interprete dell’unanime volere, del totalitarismo indistinto e come tale escludente ogni ulteriore progresso, noi possiamo ben asserire che la crisi dello Stato ha toccato il suo estremo e ch’essa deve risolversi o precipitare».
La conseguenza di questa forma di totalitarismo fu la «soppressione di ogni contrasto per il bene superiore della Nazione identificata collo Stato, il quale si identifica a sua volta cogli uomini che detengono il potere (Stato fascista)». Per molti versi quello Stato veniva deificato: il suo Capo diventa l’uomo mandato da Dio per salvare l’Italia; esso rappresenta l’Assoluto, l’Infallibile. E fu il filosofo del regime, Giovanni Gentile, ad applicare allo Stato fascista la divinizzazione hegeliana dello Stato (che, ripetendo una formula di Sant'Agostino, è "superior summo meo, interior intimo meo", superiore a ciò che per me è sommo, più intimo della mia più profonda interiorità), sostenendo pure che il passaggio dal liberalismo al fascismo stesse nella natura delle cose. E non a caso l’aggettivo totalitario fu alla fine introdotto nel linguaggio fascista, e in senso positivo, dallo stesso Mussolini il 22 giugno 1925, nel discorso all’ultimo congresso nazionale del Partito fascista, quando proclamò che il fascismo avrebbe perseguito la propria meta con «quella che viene definita la nostra feroce volontà totalitaria», aggiungendo di voler fascistizzare la Nazione, al punto che italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, divenissero la stessa cosa.
Politicamente e giuridicamente ciò venne attuato con le leggi costituzionali elaborate dal giurista Alfredo Rocco e varate fra il 1925 e il 1926, concernenti le attribuzioni del Capo del governo e la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche. Venne affermata la supremazia del potere esecutivo sul potere legislativo, con la subordinazione dei ministri e dello stesso Parlamento al Capo del governo, nominato e revocato dal Re, e responsabile solo verso di lui. Il potere esecutivo diventava così «il depositario e l’organo di tutte le funzioni dello Stato generalmente considerate». Tutto il potere si concentrò così nelle mani di Mussolini come Capo del governo, che peraltro assunse personalmente la titolarità dei principali ministeri, ossia di quello degli Affari esteri e degli interni.
Alla fine, Emilio Gentile demolisce anche la tesi secondo cui la Monarchia e la Chiesa avrebbero costituito un argine alla volontà totalitaria di Mussolini, mostrando come nei casi più drammatici abbiano dovuto piegarsi alla volontà del duce. E cita a tal proposito un episodio che sconfina quasi nel grottesco. Quello della carica di Primo maresciallo dell’impero, creata il 30 marzo 1938, con la quale il fascismo inflisse un grave colpo al prestigio e al potere del re. Dopo aver conquistato l'Etiopia e insignito Re Vittorio Emanuele III della carica di Imperatore, in un discorso al Senato, Mussolini espose la sua concezione della necessità di un coordinamento unitario fra le diverse armi per attuare quella che chiamò «la condotta unitaria della guerra integrale, cioè rapida e implacabile», sotto un comando unico: comando unico che secondo lo Statuto albertino, ancora in vigore, sarebbe dovuto spettare al re, ma che egli voleva trasferire al Capo del Governo, che a sua volta lo avrebbe fatto applicare dal capo di Stato Maggiore generale e dagli organi dipendenti, per evitare ogni dissidio tra la condotta politica e quella militare della guerra.
Facendo proprie le parole di Mussolini, il presidente della Camera Costanzo Ciano e il segretario del partito, Achille Starace, convocarono i deputati (e poi i senatori) in una riunione straordinaria, arrogandosi così un potere che non competeva loro e facendo approvare per acclamazione una proposta di legge così concepita: «Articolo 1. È creato il grado di Primo Maresciallo dell’impero. Articolo 2. Tale grado è conferito a Sua Maestà il Re e a Benito Mussolini, Duce del fascismo». Il re venne a sapere della nuova legge a giuochi fatti, e protestò con lo stesso Mussolini, il quale, per tacitare la sua protesta, chiese un parere sulla legittimità della legge al presidente del Consiglio di Stato, Santi Romano. Il quale ritenne il conferimento simultaneo al Capo dello Stato e al Capo del Governo del grado di Primo Maresciallo dell’impero pienamente legittimo, «per l’ovvia considerazione che tale conferimento non deroga alla disposizione statutaria per cui il Re è il Capo supremo dell’Esercito».
La fine della conferenza di Emilio Gentile è stata poi scandita da una vera standing ovation di oltre due minuti, benché non sia stato possibile un dibattito, nel quale si sarebbero, al limite, potute evidenziare alcune analogie tra la macchina della propaganda fascista e gli attacchi attuali alla libertà di informazione, soprattutto dopo le misure antipandemiche del 2020.
Nel primo pomeriggio si è invece tenuta, nell'Auditorium della Nuvola, la conferenza di Alessandro Barbero, che ha raccontato, con grande sapienza narrativa, una battaglia, quella di Adrianopoli, che ha cambiato la storia del mondo, benché non sia famosa come quelle di Waterloo o Stalingrado. Eppure essa segnò addirittura la fine dell’Antichità e l’inizio del Medioevo, perché innescò la catena di eventi che, più di un secolo dopo, avrebbe portato alla caduta "ufficiale" dell’impero romano d’Occidente.
Certo, nel senso comune quest’ultimo evento è collegato a una data da manuale scolastico, ossia il 476 dopo Cristo, anno in cui il barbaro Odoacre, insieme comandante supremo delle forze armate romane (magister militum) e re degli Eruli, depose l'imperatore Romolo Augustolo. Ma in realtà quello fu solo il punto d’arrivo d’un processo che era cominciato molto tempo prima: in quel momento i giochi erano già fatti da un pezzo. L’imperatore era ormai una carica formale, quasi un fantoccio privo di potere effettivo, mentre l’impero si stava disgregando e perdeva i pezzi uno dopo l’altro, con i barbari che spadroneggiavano in Gallia, in Spagna, in Africa, e perfino in Italia. Si noti, ricorda Barbero, che erano già stati compiuti due sacchi di Roma: nel 410, a opera dei Visigoti di Alarico, e nel 455, a opera dei Vandali di Genserico.
La dissoluzione dell’impero era già così avanzata che perfino la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente non fece più notizia. In un famoso saggio del 1973, intitolato La caduta senza rumore di un Impero, il grande storico Arnaldo Momigliano dimostrò che proprio che il cosiddetto grande evento del 476, ossia la deposizione di Romolo Augustolo, all’epoca fu notato da pochi osservatori, peraltro molto coinvolti. Se l’impero romano, in Occidente, si era ridotto a un guscio vuoto, che poteva essere addirittura soppresso da un generale di origine barbarica senza che nessuno protestasse, ciò dipese da una serie di eventi traumatici che erano cominciati esattamente un secolo prima.
Infatti, nel 376 dopo Cristo si assiste a un minaccioso riversarsi di profughi alle frontiere dell’impero, mentre le autorità romane si mostrano incapaci di gestire adeguatamente quell’emergenza, che diede inizio a un drammatico conflitto, culminato con la sconfitta più disastrosa dai tempi della vittoria di Annibale a Canne: ossia la battaglia di Adrianopoli, che fu combattuta il 9 agosto del 378, in quella che oggi è la Turchia europea e che allora era la provincia romana della Tracia. Comincia così un’epoca in cui sarebbe stato sempre più difficile per Roma mantenere sottomessi i barbari con la forza delle armi e continuare a credersi l’unica potenza mondiale, in un mondo ormai multietnico e in un impero in trasformazione, fenomeni favoriti dal cristianesimo, che era già la religione ufficiale dell’impero romano, e stava penetrando anche fra i barbari, seppure nella forma dell'eresia ariana.
Alla fine la tribù dei Goti Tervingi (poi detti Visigoti), guidata da Fritigerno, ebbe la meglio su un contingente romano, guidato dallo stesso imperatore Valente, che perì in battaglia, troppo fiducioso nella facilità della spedizione punitiva contro la tribù "barbarica". Tribù composta da uomini molti dei quali avevano servito come mercenari l'esercito romano: ma erano pur sempre bande autonome, mai soldati romani pleno iure, neppure quando l'impero accettava di assumere la banda in blocco, e la acquartierava in un campo di legionari, con l’intesa che i provinciali fossero obbligati a mantenerla, al punto che se diventavano un po’ troppo violenti bisognava sopportarli, perché a volte le uniche truppe romane presenti sul posto erano proprio loro, e non c’era nessuno che potesse costringerli a comportarsi bene.
Dopo Adrianopoli, peraltro, la coscrizione funziona sempre peggio, perché la popolazione dell’impero non ha voglia di prestare il servizio militare: i mercenari barbari sono reparti già pronti, agguerriti e non c’è bisogno di addestrarli: è sufficiente pagarli e fornirgli l’annona, cioè i rifornimenti di viveri, a spese dei contribuenti. L'imperatore Teodosio non potrà più farne a meno: durante il suo regno deve affrontare ben due usurpatori, pericolosi tutt’e due, e se riesce a sopraffarli è solo perché oltre all’esercito regolare dispone dei mercenari barbari. Barbero però, nella conclusione, sottolinea che ormai l’impero era diventato un un melting-pot, sicché la natura barbarica di questi immigrati non andrebbe esagerata, soprattutto quando si tratta di gente che fa carriera, ascendendo ai massimi gradi dell'esercito. Noi continuiamo a chiamarli Goti perché siamo fissati con l’identità etnica, ma in realtà questi Goti si romanizzavano, o si grecizzavano, in fretta. Anche Fritigerno e Alarico avevano probabilmente una doppia identità: il secondo, in particolare, era Alarico, il capo guerriero a cui tanti Goti avevano giurato fedeltà secondo i rituali dei loro antenati, ed era Flavio Alarico, il generale romano, magister militum, e queste identità non erano una vera e una falsa: erano vere tutt’e due.
Ma per Barbero la vera svolta epocale sta nel fatto che dopo Adrianopoli comincia a venir meno l’antica unità del mondo romano e mediterraneo; è qui che nascono un Occidente dove Romani e Germani dovranno imparare, faticosamente, a convivere, e un Oriente greco, che invece avrà una storia del tutto diversa. Conseguenze di questa spaccatura che noi sentiamo ancora nell’Europa di oggi.