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Acoustic Floyd al Crossroads. Psychoprog masterpieces in chiave post rock
Dopo il concerto del 16 aprile 2010, il live club Crossroads ha di nuovo ospitato, il 4 dicembre scorso, una performance degli Acoustic Floyd. Gli Acoustic Floyd non si presentano come una mera cover o tribute band: certamente il loro fine precipuo è quello di proporre in chiave semi-acustica i brani più significativi dei Pink Floyd, ma è altrettanto forte in loro la consapevolezza che sarebbe assurdo e poco sensato tentare di riprodurre come una copia carbone le sonorità del mitico gruppo di Waters & Gilmour.
Del resto, ormai la musica dei Pink Floyd ha sempre più l’aspetto di qualcosa di classico, ma con una sostanziale differenza rispetto alla musica "cólta" della tradizione: mentre l'esecuzione di quest’ultima non è inscindibilmente legata ai compositori che l’hanno scritta, cosicché una partitura può essere eseguita e reinterpretata entro certi limiti e in conformità a certi canoni anche dopo la morte del compositore (Maurizio Pollini o Giovanni Bellucci possono benissimo interpretare in modo sublime Beethoven o Liszt), per l’ibridazione di rock psichedelico e progressive della band inglese vale quello che ha detto Walter Benjamin dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: la sua esistenza unica nel luogo in cui si trova.
Luogo che in questo caso è da intendere in senso metaforico, come sintesi della compresenza dei brani musicali con i musicisti che li hanno composti e che coincidono con gli esecutori. A nostro parere, l’unico modo per sfuggire a questa impasse non è la fedeltà “filologica” agli originali, che rischia appunto di tramutarsi in una sorta di brutta copia di quell'impossibile "unicità" o in abile esercizio di scuola, ma semmai proprio il contrario: ossia la reinterpretazione dei brani del quartetto britannico andando ben al di là del concetto di cover, e sottoponendoli a quella che una volta Theodor W. Adorno ha paragonato a una fotografia a raggi X dell’opera, ossia a un’operazione che non si limiti a mostrare il mero scheletro del brano musicale per poi riprodurlo fedelmente, ma riesca a individuare la densità strutturale profonda della sua “armonia pura” per poi reinterpretarlo in modo originale.
E gli Acoustic Floyd (come pure altri ensemble che hanno tentato operazioni del genere, dalla Solar Orchestra al gruppo di Rita Marcotulli) si sono appunto accinti a una tale impresa, adattando i brani dei Pink Floyd a una sorta di rilettura in chiave post rock, la cui cifra stilistica più evidente è l’uso massiccio degli archi (in primis il violoncello) e la dilatazione degli effetti delle chitarre e delle tastiere, sulla falsariga di gruppi come i Thee Silver Mt. Zion, i Tortoise, i Mokadelic e gli Irrepressibles.
Accordi di chitarra elettrica filtrata un po’ dissonanti introducono quasi inconfondibilmente “Shine on You Crazy Diamond”, celebre brano dedicato al “diamante pazzo”, il co-fondatore dei Pink Floyd Syd Barrett. Il suono che la chitarra del frontman, Maurizio Loffredo (che festeggiava i 29 anni il giorno prima del concerto), emette è più vibrato di quello di David Gilmour, diventando quasi solenne: gli accordi sono prolungati e dilatati. Si aggiungono poi via via gli altri strumenti: il violoncello, il contrabbasso elettrico, la chitarra acustica e le tastiere. Il canto non è privo di intensità, per quanto un po’ sostenuto e rigido. Dopo la prima strofa cantata, il violoncello di Rossella Zampiron (di formazione classica e membro di vari quartetti) entra più di prepotenza. Poi si inserisce anche un sax tenore suonato in modo appassionato da Enrico Furzi, che porta alla conclusione del brano (o meglio, delle prime cinque parti).
Il violoncello e il contrabbasso di Maurizo Meo introducono una cupa e vigorosa “Astronomy Domine”, quintessenza del periodo psichedelico dei primi Floyd, ma nettamente declinata in chiave post rock e classicheggiante (del resto, la song scritta da Syd Barrett si richiama esplicitamente al primo movimento, “Mars, the Bringer of War”, della suite The Planets di Gustav Holst). Si aggiunge subito dopo il sax, mentre l’intervento discreto ma non meno efficace delle tastiere scandisce una progressione sonora incalzante: notevole il duetto tra il sassofono tenore e il contrabbasso, mentre il violoncello e la chitarra acustica amplificata fanno un lavoro di contrappunto.
Introdotta dal contrabbasso e dalle tastiere, si presenta “Welcome to the Machine”, aspra critica dell'industria discografica e della mercificazione della musica. Al canto del frontman si aggiungono le voci delle due interpreti femminili della band. Poi il violoncello (a nostro parere lo strumento che più ha contribuito a dare una netta cifra stilistica al gruppo) diventa decisivo e lancinante, fino ad un assolo con una sorprendente variazione sul tema originale.
Una smorzata introduzione di batteria apre “High Hopes”. La violoncellista esegue un lavoro di cesello che dà vita a un esercizio virtuoso, quasi a riprodurre musicalmente i versi della canzone (“The dawn mist glowing/The water flowing/The endless river/Forever and ever” – “La nebbia dell’alba che luccica/L’acqua che scorre/Il fiume senza fine/Per sempre e in eterno”). Poi il frontman si siede e suona un caratteristico strumento, la lap steel guitar, un dispositivo azionato con cursori che riproduce il suono di una chitarra elettrica con particolari effetti e che duetta con il violoncello e con il sintetizzatore. Il brano termina con un quasi assolo di violoncello coadiuvato da basso e tastiera.
La chitarra acustica suonata dal sassofonista introduce “Mother”. Poi il frontman intona il motivo accompagnandosi con gli accordi della chitarra elettrica. Ma il tema centrale viene cantato soprattutto dalla tastierista, Nicoletta Nardi, che viene poi accompagnata dal violoncello.
Nel brano successivo, comincia il violoncello con un assolo, si inserisce poi il contrabbasso suonato “regolarmente” con un archetto: si tratta di “On the Turning Away”, suonata in modo particolarmente simile allo stile dei gruppi post rock, con archi in primo piano, violoncello vibrato, contrabbasso prima con archetto e poi pizzicato. Gli ultimi minuti sono scanditi da un assolo di chitarra elettrica accompagnata dal violoncello e dalla batteria, con una vertiginosa climax (nel senso di passaggio graduale ad una maggiore intensità e non di acme come nell'uso più corrente).
Lo straordinario impianto luci con faretti “strobocaleidoscopici” che illuminano effetti di fumo immerge nell’atmosfera particolare in cui i rintocchi delle tastiere introducono “Echoes”. Poi la chitarra elettrica e il contrabbasso accompagnano con il consueto violoncello gli indimenticabili versi di Roger Waters, con reminiscenze da John Keats, William Blake, Wystan Hugh Auden e Charles Baudelaire (“Overhead the albatross hangs motionless upon the air/And deep beneath the rolling waves/In labyrinths of coral caves/The echo of a distant time/Comes billowing across the sand” – "Su in alto l’albatro sta sospeso immobile nell'aria/e in profondità sotto le onde che volteggiano/In labirinti di grotte di corallo/L'eco di un tempo remoto/arriva muovendosi a spirale attraverso la sabbia" – trad. mia). Subito dopo il gruppo introduce alcune variazioni e assoli sui temi originari dei Pink Floyd, con una melodia classicheggiante del violoncello, una sezione ritmica stile free jazz, e la batteria e il basso in primo piano (ricordando un po’ lo stile dei Mokadelic). Dopo una serie di suoni distorti, il contrabbasso recupera la melodia originaria seguito dal violoncello.
La successiva “Breathe” viene eseguita in modo più rock, soprattutto appoggiandosi su chitarra elettrica, steel guitar e batteria, senza l’intervento della violoncellista.
Quasi a sorpresa, nella successiva “The Great Gig in the Sky” (in origine una sorta di “song with no words” sulla morte, affidata ai vocalizzi di Clare Torry), la tastierista Nicoletta Nardi canta da solista, mentre alle tastiere si siede il sassofonista, Enrico Furzi. La performance è notevole e intensa, e non fa rimpiangere l’originale, soprattutto per i toni medio-alti e altissimi, mentre quelli bassi avrebbero bisogno di maggiore messa a punto.
Il frontman torna alla chitarra acustica e subito dopo si aggiunge il sax per le prime note di “Us and Them”: assistiamo a un dialogo serrato con il violoncello, dove però quest’ultimo tende a prevalere, con accordi che necessiterebbero di maggiore armonizzazione.
“Hey You” viene introdotta da due chitarre acustiche. Dopo il canto è il violoncello a dare inizio alla sezione ritmica, in cui la batteria di Corrado D'Agostino conclude degnamente il pezzo.
I cupi tocchi dei piatti introducono, con l’indispensabile complemento del contrabbasso, della chitarra acustica e della steel guitar, “Shine on You Crazy Diamond”, part 6 & 7. Il risultato è notevole, ma avremmo voluto che venissero eseguite anche l’ottava e soprattutto la nona parte: ma per quest'ultima forse un certo timore reverenziale ha frenato dall’eseguire il memorabile assolo di tastiera che ha consegnato all’eternità della musica progressive il compianto Richard Wright.
Il gruppo sembra congedarsi, ma richiamato dal pubblico concede ancora tre bis.
Il primo è un’incantevole “Nobody Home”, eseguita esclusivamente dalle due esponenti femminili del gruppo, che si disimpegnano altrettanto bene con il violoncello e le tastiere quanto con la voce.
Due chitarre acustiche scandiscono poi una “Wish You Were Here” che diventa più emozionante quando viene cantata in coro da un pubblico compostissimo e quando la melodia viene sottolineata dal violoncello.
Il concerto si conclude con “Comfortably Numb”, dove tutti gli strumenti, dagli archi alle chitarre acustica ed elettrica, al sax e alle percussioni, cooperano per una notevole performance. Intona il canto la tastierista, poi segue il frontman con assolo di chitarra elettrica, che suggella adeguatamente un concerto di alto artigianato.
Alla fine ci siamo intrattenuti brevemente con alcuni dei musicisti, che ci hanno spiegato il modo in cui hanno deciso di reinterpretare i brani dei Pink Floyd, accennando al fatto che una simile rilettura semi-acustica era stata concepita ed eseguita dallo stesso David Gilmour.