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Mozart e Mahler a Santa Cecilia. Tra il classicismo viennese e il superamento della tradizione
L’11 dicembre 2010 (repliche il 13 ed il 14 dicembre) la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica ha ospitato l’esecuzione di due celebri sinfonie, appartenenti a due periodi e autori diversi: la Sinfonia n. 41 “Jupiter” di Wolfgang Amadeus Mozart e la Sinfonia n. 4 in sol maggiore di Gustav Mahler. A dirigere è stato il giovane direttore viennese Christian Arming (che ha sostituito il collega lettone Andris Nelsons impedito a causa di un forte stato influenzale), specialista del repertorio mahleriano, mentre come soprano è apparsa Ekaterina Sadovnikova, appena reduce da un grande successo al Covent Garden di Londra.
Il concerto si è aperto con la notissima Sinfonia n. 41 KV 551, “Jupiter”, di Wolfgang Amadeus Mozart. Insieme alla KV 543 e all’altrettanto celebre KV 550, la KV 551 forma una sorta di trittico ideale del sinfonismo di Mozart, noto anche come “canto del cigno” (Schwanengesang) e composto nel 1788, tre anni prima della morte del compositore austriaco. Il titolo, con un rimando mitologico alla divinità suprema del pantheon romano, venne probabilmente assegnato dall’impresario anglo-tedesco Johann Peter Salomon, che volle così sottolineare il carattere di equilibrio divino ed olimpico della sinfonia mozartiana.
Analogamente alla Sinfonia n. 40, anche qui non è presente una vera e propria introduzione. Il primo movimento, Allegro vivace, attacca deciso con il tema principale dove si contrappongono due princìpi antitetici, poi subito riconciliati grazie a una scala discendente di fiati. Nel secondo movimento, Andante cantabile, il tema eseguito dagli archi si profila con calma serenità per poi caricarsi di una certa tensione drammatica. Più tradizionale il minuetto, ma già con soluzioni timbriche preromantiche. Nel finale, che suggella la sinfonia, siamo in presenza di una fuga, con suggestioni haydniane che poi ammiccano a Beethoven: la tonalità di do maggiore permette poi di riacquisire tutti i temi già esposti negli altri movimenti.
Arming appare molto elegante e deciso nei gesti (per alcuni versi sembra un personaggio di un film di Ken Russell, quasi a incarnare il prototipo del direttore d’orchestra romantico; del resto Santa Cecilia sta accogliendo numerosi direttori giovani, come Kirill Petrenko): il secondo tempo sotto la sua bacchetta scorre più lento del consueto; il minuetto viene suonato in modo molto “viennese”, con passo quasi da valzer.
La seconda parte del concerto è dedicata alla Quarta Sinfonia di Gustav Mahler, nella quale il grande musicista boemo effettua quasi un percorso compositivo “a ritroso”; infatti, compose nel 1892 l’ultimo movimento, in forma di Lied, mentre solo nel 1900 concluse gli altri tre tempi. La sinfonia è stata spesso considerata una sorta di riflessione sui temi della morte e dell’infanzia, dove viene, per così dire, descritto un luttuoso paradiso sognato da anime infantili, non senza la connotazione di una lieve ironia.
Il primo tempo (Bedächtig. Nicht eilen – Riflessivo. Non troppo mosso) è forse quello con la linea melodica di maggior ascendenza mozartiana e per questo si riallaccia idealmente alla KV 551. I flauti imitano i campanelli aprendo un tempo insolitamente sobrio, contraddistinto da una sorta di equilibrio classico. Segue una melodia mutuata dal secondo tema dell’Allegro moderato della Sonata per pianoforte op. 122 di Franz Schubert, ma piegata a una sembianza classica, fino a ricordare temi del cosiddetto classicismo viennese, da Mozart a Haydn. Ma si tratta appunto di mera apparenza, come ci ricordano i campanelli iniziali, di cui si potrebbe dire, con il filosofo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno, che alludono al fatto che non c’è niente di vero in quello che si sta ascoltando. Ossia, il materiale classico viene filtrato attraverso un tema che si snoda in modo quasi scomposto e arruffato, con le parti affidate ai fiati che insidiano la priorità degli archi.
In ultima analisi, questa parte appare caratterizzata da una sorta di studiata frammentarietà, con le varie membra che ritornano unitarie nello sviluppo salvo poi disgregarsi di nuovo verso la coda. Sostanzialmente si suggerisce che non esiste nessuna logica lineare del discorso musicale: non potremmo essere più lontani, con questo senso dell’illusorio, dalla composta olimpicità della sinfonia “Jupiter” di Mozart. Del resto, Mahler sosteneva che riprendere la tradizione sic et simpliciter rischia di tradursi in sciatteria: come ci ricorda Quirino Principe, egli aborriva ogni confusione tra la tradizione e la mera ripresa del passato. Per lui, i pretesi tradizionalisti sono in realtà i veri nemici di quella che oggi, con la filosofia ermeneutica di Hans-Georg Gadamer, chiameremmo la “tradizione vivente”.
Lo Scherzo del secondo tempo (In gemächlicher Bewegung, ohne Hast – Moderato senza affrettare) si connota per la presenza sconcertante di un violino solista apparentemente “scordato” (ma in realtà accordato un tono sopra rispetto all’accordatura canonica): e durante l’esecuzione assistiamo alla sostituzione del violino, affidato alla maestria di Alessandro Cappone. Il violino così trattato (in modo da somigliare il più possibile allo strumento usato nelle danze popolari, il cosiddetto Fidel, poi ripreso dal fiddle del folk americano) simboleggia il “Freund Hein”, una figura tipica dell’arte e della mitologia medievale tedesca, di solito rappresentata nelle vesti di uno scheletro che suona il violino conducendo un Totentanz (danza della morte): con questo trattamento il violino conferisce alla musica un carattere quasi spettrale, fino a raggiungere la tensione di quella danza macabra resa famosa dal poema sinfonico di Camille Saint-Saëns. A questa tensione si alternano tipici ritmi di marcia. Ma si tratta di marce depurate dal loro carattere costrittivo di origine militaresca, così da diventare sogni di una libertà possibile, quasi alludendo a una regressione infantile con il desiderio di parlare una lingua ormai perduta, anche a costo di perdere la propria identità. E in effetti, come ha avvertito Adorno, dietro l’apparente serenità la musica di Mahler appartiene al regno delle ombre, nel quale viene trascinata come la mitologica Euridice nella leggenda di Orfeo.
Il terzo tempo (Ruhevoll. Poco adagio - Tranquillo. Poco adagio) rappresenta la sezione più distesa e dilatata dell’intera sinfonia. Mahler stesso lo prediligeva, definendolo “la più grande mescolanza di colori mai apparsa”. Si articola su due temi cantabili, di carattere lirico ed estatico, veicolati attraverso una serie di variazioni che ricordano alcuni passaggi della Nona di Beethoven, arrivando però ad incorporare anche varie dissonanze, come è tipico della musica post-romantica (ma come già lo stesso Beethoven aveva prefigurato, soprattutto negli ultimi quartetti per archi): la novità di Mahler qui consiste nel fatto che queste tensioni apparentemente disarmoniche non vengono mai ricomposte in modo definitivo. Sapientemente Arming sa dirigere la massa orchestrale fino all’apertura esplosiva che si manifesta poco prima della fine del movimento: se dovessimo interpretare la sinfonia come una quasi musica a programma (benché Mahler fosse riluttante a stabilire per decreto il significato delle forme musicali), potremmo dire che qui abbiamo un’anticipazione della visione celeste che verrà poi descritta nell’ultimo movimento. Ma l’improvvisa esplosione si interrompe bruscamente e la musica affonda di nuovo in una dimensione crepuscolare che evoca paesaggi di silenzio (e pochi come Mahler sanno evocare il rapporto tra musica e silenzio, di cui hanno variamente parlato personaggi diversi come Vladimir Jankélévitch e Robert Fripp).
Infine, il quarto movimento mette in musica in quattro versi e una coda il testo della poesia “Il cielo è pieno di violini” („Der Himmel hängt voll Geigen“) da Des Knaben Wunderhorn, dallo stesso Mahler leggermente modificato e intitolato “La vita celestiale” („Das himmlische Leben“). Questo Lied popolare, affidato alla voce del soprano Ekaterina Sadovnikova (di cui abbiamo apprezzato soprattutto i toni acuti, mentre sui bassi la sua voce non appare troppo marcata rispetto ad alcuni passaggi orchestrali), descrive le gioie di un paradiso irreale, apparentemente distante dall’uomo.
L’apertura in sol maggiore ci introduce a una rilassante scena bucolica, in cui la voce del soprano presenta una visione ingenua del Paradiso, descrivendo la festa in preparazione per tutti i santi. Ma la scena ha i suoi elementi molto oscuri: un bambino, tramite la voce del soprano, ci spiega che la festa si svolge a spese degli animali, tra cui un agnello sacrificale ("Johannes das Lämmlein auslasset,/Der Metzger Herodes drauf passet,/Wir führen ein geduldigs,/Unschuldigs, geduldigs,/ Ein liebliches Lämmlein zum Tod". - Giovanni lascia l'agnello in libertà/Erode il beccaio all'erta sta:/noi portiamo un paziente,/un innocente, un paziente,/ un caro agnellino alla morte. Trad. di Quirino Principe) che ci ricorda l’analogo agnello di William Blake (The Lamb). Benché qui la simbologia rimandi piuttosto all’universo ebraico che a quello cristiano. Non a caso poeti di forti ascendenze ebraiche, come Paul Celan e Leonard Cohen (The Butcher: "I came upon a butcher,/he was slaughtering a lamb", - mi imbattei in un macellaio,/stava facendo a pezzi un agnello), hanno molto insistito sul tema della vittima sacrificale, di cui l’agnello rappresenta la metafora forse più sfruttata.
La vita del paradiso appare come quindi una parodia della vita terrena, al punto che questo movimento viene interpretato come “il commento più radicale sul corso del mondo, che Mahler abbia mai composto” (Iván Fischer). Con ciò si intende che qui nella musica si vuole mettere in risalto che né la fede né l'umorismo e l'ironia saranno in grado di sconfiggere l’inadeguatezza del mondo; la conclusione quasi soffocante è sintomatica: la visione apparentemente ingenua del paradiso svanisce prima della conclusione. "Nessuna musica giù in terra suona" („Keine Musik ist ja nicht auf Erden“), si legge nell’ultima strofa.
Si può a lungo discutere se Mahler credesse o no in questo paradiso. Stando a Ken Russell e al suo film Mahler. La perdizione, la conversione dell’ebreo Mahler al cattolicesimo appare come un mero gesto opportunistico, finalizzato ad assumere la direzione della Staatsoper di Vienna. Del resto, lo stesso Adorno, parlando dell’immagine di beatitudine che conclude la sinfonia, sottolinea che si tratta di una descrizione contadina ed antropomorfa per avvertire che il paradiso non esiste, come spesso si riscontra nella miscredenza dei luoghi dove alla conversione forzata è seguita la critica scettica dell’illuminismo. In fondo, quella di Mahler è una sorta di cristologia paradossale di stampo gnostico, che serve il salvatore a tavola all’anima indigente, la quale non avrà mai la sicurezza di ridestarsi. La fantasmagoria del paesaggio trascendente rimane una nostalgia (Sehnsucht) inattingibile.