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Santa Cecilia e la Sesta Sinfonia di Mahler. La forma elegiaca della Sehnsucht
Nell’ambito del ciclo dell’esecuzione integrale delle sinfonie di Gustav Mahler, l’11 gennaio 2011 il direttore Antonio Pappano ha condotto, con la consueta sicurezza e l’assoluto dominio della partitura, l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nell’esecuzione di una delle più celebri composizioni del musicista boemo, la Sesta sinfonia, detta “Tragica”, di cui Alban Berg ebbe a dire che si trattava «dell’unica Sesta, nonostante la “Pastorale"».
La sinfonia venne composta tra il 1903 e il 1905, mentre l’Europa era percorsa dai prodromi inquietanti della Prima Guerra Mondiale, Albert Einstein scopriva la relatività ristretta, stava maturando la crisi dei fondamenti della matematica e Sigmund Freud approfondiva il concetto di inconscio. La première si ebbe insolitamente in una città industriale, Essen, situata nel cuore della zona della Ruhr, il 27 maggio del 1906, sotto la direzione dello stesso compositore.
L’appellativo “tragica” conferito alla sinfonia, pur essendo stato foggiato dallo stesso Mahler (come ci ricorda il direttore Bruno Walter nelle sue memorie), non fa parte del titolo “ufficiale” che lo stesso compositore le aveva assegnato, forse per evitare il rischio che la si fraintendesse come musica a programma.
Potremmo piuttosto dire che il carattere “tragico” di questa sinfonia non si riferisce tanto alla tematica, ma all’espressione dell’hegeliana “immane potenza del negativo”, che ha fatto dire a Theodor W. Adorno: “È esso stesso espressione del nesso di immanenza in cui culminò la composizione di Mahler […]. Nel grande finale della Sesta si sente il rumoreggiare della vita, non per essere sorpresa dall'esterno con colpi di martello ma per crollare su sé stessa: l'élan vital si rivela essere malattia mortale”.
Del resto, come ha argomentato Quirino Principe nella sua monumentale monografia mahleriana (Mahler. La musica tra Eros e Thanatos, Bompiani, 2002): "S’intravede una catena di corrispondenti figure in sequenza, come gli arcani di un mazzo di carte o le stazioni di una via crucis mahleriana […]. Attraverso questi arcani o stazioni, Mahler sembra finalmente identificarsi senza ataviche insufficienze nella tradizione musicale europea intesa come collettiva dichiarazione di angosce e di sconfitte".
Il primo movimento (Allegro energico, ma non troppo) comincia imperioso, quasi ex abrupto: sembra che Pappano, seguito con assoluta fedeltà interpretativa dall’orchestra sempre più a suo agio con Mahler, non voglia minimamente indugiare nella linea esecutiva, conducendo il pubblico immediatamente all'interno dell'epos fortissimo dell’impetuoso e monumentale movimento di marcia.
Il motivo fondamentale consiste in una triade in la maggiore che trapassa in la minore attraverso un uso molto accorto del ritmo percussivo, scandito dai timpani e dagli accordi suonati da trombe e oboi. Questo motivo, che con una certa faciloneria approssimativa è stato accostato al presentarsi del destino (come nella Quinta di Ludvig van Beethoven), riappare comunque nei successivi movimenti, ma nel primo si correla ad una melodia che si libra nell’aria in modo etereo - nascendo da una sorta di corale intonato dagli archi sia in modalità convenzionale, sia in pizzicato -, nota come il tema di Alma, il nome della moglie di Mahler, da lei stessa ritenuta rappresentativa della sua personalità: siamo in presenza di un afflato lirico che istituisce quasi una corrispondenza di respiri tra gli orchestrali e la platea, assorta come poche volte ci è capitato di osservare a Santa Cecilia. Il movimento, nella sua complessità, è paradigmatico della forma-sonata, con esposizione (dove domina il tema di marcia), sviluppo (quasi un’oasi di contemplazione mistica), e ripresa (dove il tema di Alma viene ripreso ma con una serie di variazioni che gli conferiscono un carattere insieme tragico ed esaltante).
Nel secondo movimento (Scherzo – Wuchtig), scandito da un incedere di marcia più disteso e meno tumultuoso, si ripresenta la stessa tonalità in La minore con fiati e archi che compongono a tratti un’atmosfera che trapassa repentinamente dall’elegiaco al maestoso, grazie anche ai trilli di violino che dissipano il turgore dei pieni orchestrali. L’orchestra riesce mirabilmente a riprodurre la tavolozza policroma dell’orchestrazione mahleriana, dalle combinazioni possenti, ma spesso paradossali, di forte e piano, fino all’uso delle nacchere, elegante e accorto nella sua apparente banalità. Per Adorno, lo scherzo della Sesta si richiama a quello della Quinta sinfonia, ma in modo contrastante: in quest'ultima l’unità sinfonica viene ricercata nell’allineamento di una serie di danze, mentre qui, in un’altalenante ascesa e discesa di ritmi e armonie, si cerca di ricavare, quasi per distillazione, da un minimum di materiali un maximum di caratteri musicali variegatissimi.
Nel cosiddetto trio, ossia nella sezione centrale, si avverte un ritmo irregolare, che Mahler aveva etichettato come “fuori moda” o meglio in "stile antico" (altväterisch). Tutto il tessuto sonoro è caratterizzato da un intenso lirismo, grazie anche all’uso della celesta e agli echi barocchi che promanano dagli archi.
Nel terzo movimento, un Andante moderato in mi bemolle maggiore eseguito con sfumature molto tenui e che privilegia ancora gli archi, l’orchestrazione sembra affluire incessante da un’introduzione con un fraseggio in dieci battute, che richiama il pathos di un’elegia, quasi sussurrata. Il secondo tema viene esposto dal corno inglese, che conferisce alla melodia un andamento quasi pastorale, ma con accenti più ruvidi e meno crepuscolare. Di incredibile efficacia risultano poi le due arpe, che riescono a interrompere l’atmosfera drammatica che si riverbera dal Primo tempo e si effondono in un delicato lavoro di cesello che a tratti sembra rievocare lo struggente Adagietto della Quinta Sinfonia.
Con il maestoso e lunghissimo Finale (Sostenuto - Allegro moderato - Allegro energico), veniamo proiettati in una dimensione quasi filosofica. Si tratta di uno dei più lunghi pezzi strumentali mai scritti da Mahler (insieme al primo movimento della Terza sinfonia), in cui l’espansione epica è padrona di sé nella maniera più vigorosa possibile. Tuttavia, si può dire che in questo finale sia all’opera una sorta di tendenza incoativa (che esprime il principio di una cosa o di un'azione): come nella coeva fenomenologia di Edmund Husserl, assistiamo al tentativo, sempre cominciato ma mai concluso, di descrivere la struttura della realtà. In tal senso, questo brano è veramente il centro di tutta l’opera di Mahler.
Un respiro inesausto, magico e perturbante contraddistingue l’entrata dei tromboni che suggeriscono una profondità tenebrosa, poi regolata dall’intervento delle trombe, mentre gli ottavini e i clarinetti si limitano a disegnare paesaggi inquietanti. Gli archi apportano dal canto loro il maggior carico di disagio, intervallato da un brano di intersezione che attenua i toni riattingendo i tratti più connotati dal lirismo. Si librano in slanci vertiginosi, contrappuntati da armonie quasi grottesche del basso tuba e da quasi vagiti del corno e di altri strumenti a fiato.
Su queste linee sonore si staglia il motivo fatale della sinfonia, nel quale l’accordo in la maggiore delle trombe si tramuta in minore accompagnato dai cupi rintocchi del timpano. Di nuovo, nella parte conclusiva i temi ed i suoni si accavallano fino a formare un magma vulcanico che esonda tumultuante, quasi il ritorno in un antro dove cataste di libri e di formule acclamano spiriti provenienti da un mondo totalmente altro.
Interviene a un certo punto uno dei primi violini che abbozza una melodia quasi solista. E Adorno commenta: “la musica del Mahler maturo conosce la gioia soltanto come qualcosa di revocabile, come nell’episodio sfuggente del violino solo nella ripresa del Finale della Sesta sinfonia”. Il movimento è suggellato dai famosi tre colpi di martello, dalla moglie identificati con tre episodi tragici della vita del compositore (la morte della figlia maggiore, la diagnosi di una malattia cardiaca che gli si rivelerà fatale e le dimissioni dall’Opera di Vienna).
In conclusione, si potrebbe affermare con il filosofo Ernst Bloch che la Sesta Sinfonia di Mahler esprime “La musica della Sehnsucht, priva di sdolcinato sentimentalismo”. Per il filosofo dell’utopia (che vede nella musica del compositore boemo la prefigurazione di un’altra società), “la musica di Mahler si forma mentre viene eseguita; poi qualcosa viene ripreso e portato sino alla fine, ma ancora una volta questa fine non è una fine. Ciò che finora non c’era ancora tende a un che di futuro, ad un Novum, ad una musica ricca di un’interiorità sconosciuta e non filistea, ad un inno senza alcun fondamento ed oggetto, ma che saluta una realtà nata or ora…Qualcosa irrompe e porta la pienezza di ciò che era nell'oscurità. E l'oscurità stessa diventa luce. Ma l'oscurità nella luce resta oscura, non è tenebra ma silenzio, ‘silenzio che risuona’, che parla da questa musica senza sentimentalismo e con grande sbigottimento”.