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Lu.C.C.A. Robert Capa cronista di guerre
Tra i grandi fotogiornalisti del secolo scorso, quando ancora questo termine non era in voga, Robert Capa è sicuramente colui che più si è dedicato a ritrarre la “guerra”. Infaticabile, coraggioso e attento, ci ha lasciato una fornita documentazione su tutti i maggiori conflitti del suo tempo. Tale eredità è in mostra al Lu.C.C.A. fino al 2 Novembre 2014.
Nato a Budapest nel 1913 sotto altro nome, Capa realizzò il suo primo servizio importante ritraendo Leon Trotsky nel 1932, durante un discorso a Copenhagen sul significato della rivoluzione russa, cogliendo l’uomo in tutta la sua forza oratoria. Capa dette immediatamente prova d’astuzia riuscendo a intrufolarsi nel luogo del discorso e a scattare le sue fotografie, quando nessun fotografo era ammesso: questa capacità di “sapersi muovere” e il suo disprezzo del pericolo saranno le qualità che gli consentiranno di realizzare quanto ci ha lasciato, e che lo porteranno alla sua morte.
Di lì a poco si trasferì a Parigi e conobbe Gerda Taro, con cui si unì professionalmente e sentimentalmente, e con cui creò il personaggio di “Rober Capa” (vendendo le proprie foto come appartenenti ad un “famoso fotografo americano”) documentando al contempo la vicenda del Fronte Popolare parigino nella prima metà degli anni ’30.
Ma ciò che rese Capa davvero celebre fu la seguente guerra civile spagnola (1936-1939). Documentò gli scontri e i combattenti stando fianco a fianco con i militanti repubblicani, che si battevano contro le truppe nazionaliste del generale Francisco Franco. È di questo periodo la celeberrima foto che ritrae la morte di un soldato lealista: la crudezza di questo scatto immortala la banalità della morte in campo di battaglia, morte verso cui ogni soldato corre incontro.
L’autenticità di questo documento è stata messa in discussione, ma Capa stesso in un’intervista riportò di aver scattato la fotografia mentre era in trincea con una ventina di soldati, falciati sistematicamente da una mitragliatrice franchista; Capa si limitò ad alzare la macchina fotografica sopra la propria testa, cogliendo così lo scatto in modo del tutto inconsapevole dell’eventuale risultato. E tale scatto è spesso considerato come la sua migliore foto.
Nella mostra sono rappresentati anche gli altri conflitti documentati da Capa: dopo la guerra civile in Spagna (dove morì anche la sua amata Gerda) seguì la seconda guerra sino-giapponese (nel 1938), la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana (nel 1948) e infine la prima guerra d’indocina (1954).
Di tutti questi conflitti possiamo dire che Capa è riuscito a raccontare come essi siano essenzialmente identici. Le circostanze geopolitiche non potrebbero essere più diverse tra loro, ma l’essenza di ciò che sta accadendo non è distinguibile da una guerra all’altra. Si tratta sempre di odio, di paura e di dolore. Vi sono sempre persone pronte a morire per degli ideali, altre in fuga, altre perseguitate; vi sono grandi generali dietro a tavoli imbanditi di mappe; vi è propaganda volta a nascondere i controsensi esistenziali insiti nel mutuo annientamento di due gruppi di esseri umani; vi sono sangue e morte ad ogni angolo.
Capa questo è ben riuscito a renderlo evidente, se guardiamo le sue fotografie con un’ottica più ampia di quella del reportage del singolo avvenimento. Il suo modo di procedere facilita questo tipo di confronti, in quanto egli si muoveva cercando quelli che aveva identificato come i tratti salienti e ricorrenti di un conflitto e scattando immagini in sostanza analoghe durante ogni evento.
Tra le foto della guerra sino-giapponese, è interessante esaminare il volto di un soldato mentre fa propaganda su un palco: i suoi lineamenti regolari e lo sguardo deciso ma rassicurante eliminano chirurgicamente ogni aspetto terribile della guerra, lasciando spazio soltanto all’eroismo e all’ideologia. Nient’altro deve possedere un buon soldato, se vuol morire senz’indugio per perseguire gli scopi dei propri capi e primi carnefici.
La foto che ritrae David Ben-Gurion mentre declama la nascita dello stato d’Israele (14 Maggio 1948), con il ritratto di Theodor Herzl (il teorico dello stato sionista) appeso alle sue spalle è di grande importanza storica: il documento di un momento che tanto peso avrà sui decenni successivi.
Tra le svariate fotografie scattate fianco a fianco coi soldati, sicuramente degne di nota sono quelle dello sbarco in Normandia del 6 Giugno 1944, dove il mosso, il cielo grigio, la grana eccessiva della pellicola comunicano perfettamente la tensione e l’eccitazione di quei momenti. Molte sue foto di questo evento andarono distrutte per errore di un tecnico addetto allo sviluppo dei negativi, e alcune di quelle rimaste furono pubblicate indicando che il mosso era dovuto “all’eccitazione del momento”.
Oltre alle foto dell’azione bellica, non vanno dimenticate (perché di esatta pari dignità) quelle che ritraggono i civili. Dai bambini che giocano in Cina, alle masse in fuga (a piedi o su treni traboccanti) l’impressione è sempre quella di un’impotenza che ignora le motivazioni di ciò che sta passando, unita all’incognita del futuro.
Effettivamente, dice bene nell’introduzione alla mostra Maurizio Vanni, curatore, come le opere di Capa siano dei film: come si possa sentire il sibilo del vento e gli scoppi delle bombe, come la tensione e la paura possano essere avvertite nel tono generale dell’immagine. Sebbene questo possa generalmente dirsi per tutta la buona fotografia, nell’opera di Capa ciò che cambia è che si va al di là del singolo evento o del singolo fotogramma. Non ci si limita all’immagine ripresa, ma la foto è espressione di una circostanza più ampia.
Questa sensazione è diversa ad esempio da quella trasmessa da Cartier-Bresson (altro pioniere del fotogiornalismo) dove il suo è un occhio più artistico, per così dire, più legato all’inquadratura narrativa.
Ciò comunque non vuol dire che, come tutti i grandi fotografi, Capa non avesse abilità artistica: i suoi ritratti sono splendidi, che siano di una ragazzina che si riposa durante un’evacuazione, o che sia un autoritratto con l’amico John Steinbeck.
E come ogni grande artista, fece della sua vita una sola entità con la su arte: morì in Indocina, mettendo piede su una mina antiuomo mentre seguiva un gruppo di soldati.