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Monaco Bayerische Staatsoper. Tannhäuser e l'impalpabile stella della sera
Il 29 giugno 2013 la Bayerische Staatsoper ha presentato al Nationaltheater di Monaco di Baviera un'innovativa e scintillante versione del Tannhäuser di Richard Wagner, che, sotto la sapiente direzione musicale di Kent Nagano e la regia di David Alden, con una messa in scena risalente a 15 anni fa, è riuscita a mediare efficacemente tra spunti romantici, allusioni neoclassiche e un’equilibrata modernizzazione di scene e fondali, tra cui spicca, nell'ultimo atto, la gigantesca scritta "Germania nostra", in latino.
Gothic Network ha già recensito più volte il Tannhäuser, sicché non ci soffermeremo tanto sulla trama e sugli aspetti più consueti, ma metteremo in evidenza alcune peculiarità tematiche e alcuni caratteri originali di questa versione.
Per mera comodità espositiva, ricordiamo qui che il dramma wagneriano si incentra sulla figura di un mitico cantore di Minnesänger appartenente alla cerchia del Landgraf Hermann, ossia Tannhäuser, il quale entra in conflitto con gli ideali rigidi di questa cerchia, cercando consolazione e ispirazione sul Venusberg. In questa versione, tuttavia, Tannhäuser appare come una sorta di artista neoromantico, incompreso e irrisolto, che cerca invano l'unità e l'armonia in sé stesso.
La dea Venere diventa la nuova Musa della sua arte, ma egli deve fare i conti con il conflitto che subentra tra gli ideali paganeggianti espressi dalla dea e la dimensione cattolica, espressa direttamente dalla Vergine Maria e indirettamente dall’amore puro e incondizionato di Elisabeth, la nipote del Landgraf di Turingia. Il ritorno alla corte del langravio significa per Tannhäuser non solo la possibilità di incontrare nuovamente Elisabeth, ma anche di cimentarsi con gli altri trovatori in una sorta di singolar tenzone poetica, avente come tema nientemeno che la fondazione dell’essenza dell’amore (“Könnt ihr der Liebe Wesen mir zu ergründen?”).
È notevole come si formi un fronte maggioritario, costituito da Wolfram von Eschenbach, Walther von der Vogelweide e Biterolf, che celebra l’amore ideale e spiritualizzato, simile all’eros “uranio” del Simposio di Platone. Minoritaria appare la posizione di Tannhäuser che individua la vera essenza dell’amore nel piacere dei sensi, l’eros “pandemio”, “volgare”, come ebbe a definirlo il grande filosofo greco. Solo l’intervento di Elisabeth salva Tannhäuser da una punizione letale per mano degli altri cavalieri.
E la penitenza che egli dovrà scontare, simbolicamente tradotta in un pellegrinaggio a Roma, prelude solamente alla ben più dura espiazione dei suoi peccati che si tradurrà nel sacrificio della stessa Elisabetta: nella sua morte si prepara la redenzione finale di Tannhäuser, che viene “salvato”, per così dire, due volte: dal sacrificio dell’amata e dalla decisione, tardiva, del papa di concedergli la grazia. A questi avvenimenti fa quasi da contrappunto il canto di Wolfram von Eschenbach, che, invocando la stella della sera, anticipa quasi la trasfigurazione di Elisabeth nella purezza dell’amore divino. Astronomicamente la stella della sera e la stella del mattino indicano lo stesso oggetto, il pianeta Venere, ma come ci ha insegnato il grande logico Gottlob Frege, che usa proprio questo esempio nel suo celebre saggio Sinn und Bedeutung, il riferimento di due diverse espressioni può essere lo stesso, ma il senso può essere completamente differente. Nel primo caso la stella della sera simboleggia la dimensione luminosa e salvifica del pianeta Venere, mentre la stella del mattino rimanda alla dea Venere, intesa come una sorta di demone pagano che induce in tentazione. L'antitesi sembra invertire quella tradizionale tra luce ed oscurità, così come nel quadro Amor sacro e amor profano di Tiziano ci fa assistere all’inversione dell’apparente contrapposizione tra la castità e la sensualità, simboleggiata la prima dalla figura di donna nuda e la seconda da quella vestita.
Wagner non fu mai pienamente soddisfatto del Tannhäuser, da lui stesso definito “la grande opera romantica”, nel senso che non ritenne di averla mai conclusa realmente. Ancora poche settimane prima della sua morte notò “di essere ancora debitore del Tannhäuser”, che egli vide come dramma compiuto in un senso e incompleto in un altro, in quanto gli sembrava poco maturo dal punto di vista musicale. Secondo lui Tannhäuser, Tristano e Parsifal formavano un tutt’uno, i cui fili occorreva riannodare. Del Tannhäuser del resto ci sono varie versioni, tra cui quella originaria di Dresda, del 1845, quella parigina del 1860, che si limitò a una ristrutturazione delle prime due scene del primo atto. Il compositore ne progettò un altra per Bayreuth, mai realizzata.
Diverse sono anche le fonti letterarie a cui attinge: racconti di Ludwig Tieck (Der getreue Eckart und der Tannenhäuser) ed E. T. A. Hoffmann (Der Kampf der Sänger), la leggenda in versi dedicata a Tannhäuser da Heinrich Heine contenuta nel saggio Elementargeister e pervasa da una sottile ironia, la “mitologia tedesca” dei fratelli Grimm, il dramma Der Sängerkrieg auf der Wartburg di De la Motte Fouqué, il racconto Das Marmorbild di Joseph von Eichendorff. Ma l’abilità di Wagner consistette nel fondere ispirazioni diverse per realizzare una sorta di collage anacronistico, dove, intenzionalmente, gli ideali e i costumi del XIII secolo si rifrangono attraverso una sorta di lente romantica, realizzando quello che potremmo chiamare il prodigio in technicolor del secolo XIX. E la versione di Monaco sembra davvero un film leggermente in ritardo sui tempi, con un profluvio di scene che evocano la magia delle prime pellicole a colori, piuttosto che la ridefinizione digitale a cui gli spettatori di oggi sono abituati.
Il buio e il silenzio iniziali nella sala sono presto squarciati dalle note della maestosa Ouverture in Mi maggiore, cesellata con sapiente linearità melodica dal tocco di Kent Nagano, altrettanto lontano dall’interpretazione magniloquente di Herbert von Karajan quanto da quella filosofica e “nietzscheana” di Giuseppe Sinopoli, che chi scrive considera la più riuscita e aderente allo spirito dell’autore. L’ouverture contiene già, oltre a uno dei principali Leitmotive dell’opera, quello che è il suo nucleo tematico fondamentale, ossia il dualismo tra la carne e lo spirito. Nessuno più di Charles Baudelaire fu in grado di cogliere, con l’immediatezza propria del grande poeta e con l’acume riflessivo di chi di tale dualismo si nutriva e ne alimentava la sua creatività, la specificità dell’arte wagneriana. Per lui, l’ouverture riassume i concetti fondamentali del dramma attraverso due canti, il canto religioso e quello voluttuoso, che, come ebbe a rilevare Liszt, vengono posti come due termini che solo nella conclusione trovano la loro equazione (ed è probabile che Baudelaire abbia ripreso questi temi in alcune delle Fleurs du mal, come la Chanson d’après-midi, dove sulle rovine dell’altare dedicato alla Madonna sorge l’effigie irridente del suo doppio volgare e corrotto: Je t'adore, ô ma frivole,/Ma terrible passion!Avec la devotion/Du prêtre pour son idole. - T'adoro, o mia frivola, mia passione tremenda!/Con la devozione del sacerdote per il suo idolo.). Il Canto dei Pellegrini appare per primo, con l'autorità della legge suprema, additando all'obiettivo del pellegrinaggio universale, vale a dire Dio.
Ma, “come il senso intimo di Dio è presto annegato nella coscienza dai desideri della carne, il canto della santità è gradualmente sopraffatto dai sospiri di piacere” del baccanale. La vera e universale Venere si staglia in tutte le immaginazioni che la riguardano. Qui il canto trascolora in un languore sinistro e intossicato, finché il tema religioso non recupera progressivamente il suo impero, assorbendo l’altro in una vittoria pacifica e gloriosa dell’essere puro e invincibile su quello malato e disordinato, come quella dell’Arcangelo Michele su Lucifero. Come ha scritto Quirino Principe, “spiritualità significa anche stile severo, e sensualità, cromatismo sfrenato ed esasperazione delle progressioni armoniche. Il terreno apparente su cui avviene lo scontro è quello etico-religioso; il terreno vero è la poetica della musica”.
All’inizio della seconda scena, questo dualismo si riflette bene nel fatto che Tannhäuser, fuggito dalla grotta di Venere, si ritrova lungo una via con una croce, emblema di tutte le croci che bisogna sopportare nella vita per sfuggire al peccato. Né si può dimenticare l’incipit del terzo atto, dove i pellegrini ed Elisabetta si alternano nell’esaltare il valore di redenzione dell’espiazione dei peccati, sotto l’egida dell’amore celeste:
Durch Sühn' und Buss' hab' ich versöhnt
den Herren, dem mein Herze fröhnt,
der meine Reu' mit Segen krönt,
den Herren, dem mein Lied ertönt!
(Con espiazione e pentimento io ho placato
il Signore, a cui serve il mio cuore,
e che di benedizione coronerà il mio pentire;
il Signore, a cui si leva la mia canzone!).
Il preludio riprende alcuni temi dell’ouverture, ma li immerge in un’atmosfera più soffusa e melodicamente più lineare, ripresa non a caso in anni recenti da alcune celebri suite del progressive rock.
Eccellente l’interpretazione di Christof Fischesser, nei panni di Hermann, Landgraf di Turingia (grazie alla sua voce intermedia tra quella di basso e quella di baritono) e di Matthias Goerne come Tannhäuser (più marcatamente baritono, e quindi ben distinto dall'altro), mentre ci è sembrata meno incisiva la voce da soprano di Anne Schwanenwilms, che ha interpretato Elisabetta.
I costumi alternativamente tra fedeltà storica e reinterpretazione modernizzante hanno inciso non poco sulla buona riuscita della messa in scena, che ha permesso di fruire a pieno dell’intenso e profondo afflato narrativo dell’opera.